Anziana morta dopo la rapina a Lugo, la badante riconosce l’imputato

Lugo

RAVENNA. Si è diretta frettolosamente verso l’ultimo dei tre detenuti chiusi nella “gabbia” di vetro antisfondamento: «È stato lui», ha detto indicandolo alle guardie carcerarie. E quando il giudice l’ha invitata a rifare il giro per dare un’altra occhiata, si è rifiutata: «Stanotte mi sono svegliata urlando per gli incubi», ha confessato. La badante di Alma Matulli, la 78enne morta quattro mesi dopo la rapina subita il 26 settembre 2017, è nuovamente comparsa davanti alla Corte d’assise, nel processo che vede come imputato con l’accusa di omicidio preterintenzionale il 25enne tunisino Harmin Yaakoubi. Un’udienza insolita quella di ieri, costellata di faccia a faccia diretti fra i testi, un gruppo di marocchini richiamati dalla Corte presieduta dal giudice Cecilia Calandra (Antonella Guidomei a latere) per verificare alcune «difformità palesi ed evidenti» rilevate tra le deposizioni; ma anche per appurare proprio l’attendibilità dell’ex assistente dell’anziana, che un anno fa riconobbe in foto il tunisino portando al suo arresto il giorno seguente alla rapina.

Il riconoscimento in aula

Unica testimone diretta dei fatti, la badante riferì all’epoca di aver visto una fotografia a colori dell’imputato la sera stessa del colpo, mostrata su un telefonino da un agente della polizia municipale. Il giorno seguente, ad arresto compiuto, riconobbe nuovamente l’imputato fra una selezione di foto segnaletiche. Una procedura che secondo la difesa dello straniero - gli avvocati Pierluigi e Francesco Barone - ha influenzato la donna. Un anno dopo i ricordi non si sono fatti certo più nitidi. Tanto che la donna ha negato di aver visto immagini dell’imputato prima dell’arresto, contrariamente a quanto invece riferito anche da un’agente della Municipale. Ancora scossa per quel fatto avvenuto in viale Dante, la donna è tornata a raccontare i tratti distintivi dell’aggressore: «Viso allungato, magro, alto 10 o 15 centimetri più di me, con i pantaloni strappati anche sotto il ginocchio». Una descrizione che secondo la difesa condurrebbe non all’imputato, ma a un altro marocchino, il 24enne Asfour Mouhcine, attualmente detenuto per un’altra rapina.

«Non sono stato io»

Sarebbe proprio lui, secondo alcuni connazionali sentiti, ad aver rapinato la 78enne in quel tardo pomeriggio di fine settembre, per poi anche vantarsene con i conoscenti, fra i quali l’amico Armite Salaheddine. L’avrebbe raggiunta di corsa alle spalle sorpassandola, per poi tornare indietro e chiedere un’informazione stradale alla badante. Approfittando della distrazione della donna le avrebbe quindi strappato la catenina dal collo facendola cadere a terra, procurandole lesioni fatali. Sarebbe poi scappato nell’auto di un connazionale, tale Moustafa, per poi andare a prendere proprio Salaheddine all’ospedale di Russi, e fare serata con i 300 euro ottenuti rivendendo il gioiello rubato. Portato per la prima volta in aula, il 24enne difeso dall’avvocato Marco Guerra ha però negato qualsiasi suo coinvolgimento nella vicenda, guardando in faccia al connazionale che lo aveva accusato. Sollecitato dalle domande del Pm Monica Gargiulo ha raccontato anche dell’aggressione subita in carcere da Yaakoubi, appena entrato: «Mi prese a pugni in testa finché non lo portarono via, non so perché, solo dopo mi dissero che pensava fossi stato io a compiere la rapina per cui era stato arrestato».

Il riconoscimento

Tolti gli occhiali da vista («lo faccio solo per le foto, altrimenti non vedo»), il marocchino è stato chiuso nella gabbia adiacente a quella del 25enne tunisino, prima di fare sfilare la badante della vittima. Gli è passata di fronte lanciando un solo sguardo frettoloso, prima di indicare con certezza l’imputato.

Prima della discussione che porterà alla sentenza, resta ancora un ultimo confronto fra i testi, per tentare di chiarire quelle «difformità palesi ed evidenti» che stanno prolungando il calendario delle udienze.

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