Foreign fighters, il “primato” di Ravenna diventa un caso di studio

Ravenna

RAVENNA. Una donna tra i reclutatori del Califfato a Ravenna? Le prime indagini svolte sull’intercettazione in carcere di Noussair Louati – il tunisino arrestato nel 2015 dalla Digos di Ravenna mentre era in procinto di partire per la Siria – sembrano aver dato esito negativo. Gli inquirenti pensano che si tratti di un’altra delle storie quanto meno colorite di Louati, ma che non hanno alcun fondamento con la realtà, dato che al momento non è stato trovato riscontro a quell’affermazione.

Parlando con altri detenuti per terrorismo, il giovane tunisino un mese fa aveva detto: «Il maggior numero di persone andate dall’Italia in Siria si sono mosse da lì (Ravenna, ndr), è la capitale dei foreign fighter… io ero l’ultimo, grazie a una donna che ne aiutava altri». La frase è stata captata nel corso di un’intercettazione ambientale nel carcere di Sassari, dove si trova Louati, e subito spedita a Ravenna per dare il via agli accertamenti. Che hanno però dato esito negativo.

Nel frattempo si allungano i tempi per la scarcerazione del tunisino che viveva a Ravenna. La sua uscita dall’istituto detentivo era infatti prevista per l’estate e invece non sembra che avverrà prima di settembre. Sempre che non venga ulteriormente prorogata.

Triste primato

Su una cosa però Noussair ha ragione. Ravenna detiene il triste primato di essere la città italiana da cui, fino ad oggi, sono partiti il maggior numero di combattenti per fare il jihad. Le fonti ufficiali dicono che nella città dei mosaici sono stati “prodotti” almeno nove foreign fighter, ma secondo una recente ricerca dell’Ispi – l’Istituto per gli studi di politica internazionale – le partenze potrebbero essere anche venti. Un numero sensibilmente superiore rispetto a quelli di Milano, Roma o Napoli, dove le comunità islamiche sono più radicate e popolose. Il caso di Ravenna viene definito dall’Ispi come «enigmatico» e proprio per questo meritevole di studio.

La radicalizzazione

Prima di tutto occorre sottolineare che, stando agli esperti, la radicalizzazione avvenuta nella nostra città è del tipo «dal basso verso l’alto», in cui gli aspiranti jihadisti si radicalizzano collettivamente senza l’influsso di agenti esterni. Si è trattato in molti casi di stretti gruppi di amici di lunga data che si sono influenzati reciprocamente: «Qualche membro si radicalizza – scrivono i ricercatori – e gli altri ne seguono l’esempio. Fattori quali l’attaccamento tra i componenti del nucleo (legami familiari, matrimoniali o di amicizia), possiedono una funzione che potrebbe essere persino più rilevante dell’ideologia e della situazione personale».

È proprio questo tipo di radicalizzazione quello visto a Ravenna. Meccanismo che, in questo caso particolare, affonda le sue radici nella città tunisina di El Fahs, da cui diversi giovani abitanti si trasferirono in Romagna nei primi giorni della Primavera Araba, raggiungendo altri amici e parenti già presenti in città. Molti di loro, nel tempo, sono rimasti coinvolti nel traffico di sostanze stupefacenti, proprio come accaduto a Louati, e poi sono stati ammaliati dalle ideologie dello Stato Islamico. «Vedendo nella partenza per la Siria un modo per ricongiungersi ai propri cari, abbandonare la vita mondana e partecipare a gesta epiche» al fianco delle formazioni jihadiste di Abu Bakr al-Baghdadi.

Il rebus

Fatte queste premesse, come si può dunque interpretare il rebus ravennate? Sempre l’Ispi sembra trovare due risposte a questa domanda. Prima di tutto le dinamiche di gruppo. «Indipendentemente dal fatto che i soggetti fossero nati e cresciuti localmente, il senso di appartenenza al piccolo cluster è stato il fattore scatenante». Inoltre, «il ruolo svolto dalle interazioni virtuali con amici e parenti in Tunisia che si erano mobilitati ha avuto una funzione supplementare nel processo di radicalizzazione».

L’importanza e il pericolo di questi piccoli gruppi di radicalizzazione è data anche dai numeri. Basti pensare che negli attacchi perpetrati in Occidente tra il 2014 e il 2017, su 65 attentatori 33 (quindi il 51%) provenivano da realtà locali simili a quella di Ravenna.

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