Gardini, 25 anni di dolore e sospetti mai cancellati

RAVENNA. 23 luglio 1993. Era un venerdì e a Ravenna si celebrava il giorno del Patrono. Ma a metà mattina tutta la città si ferma davanti alla televisione. E un’edizione straordinaria del telegiornale lascia Ravenna e l’Italia senza parole: Raul Gardini è morto. Il “corsaro” della chimica, il romagnolo che aveva sfidato la politica e il salotto buono dell’imprenditoria nazionale si sarebbe sparato un colpo di pistola alla testa nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano. Questo diranno i telegiornali della sera. Questo scriveranno i giornali per giorni, mesi, anni. Perché questa è la verità giudiziaria, come trascritta nero su bianco nel provvedimento del Tribunale di Milano del 10 giugno del 1995, quando su richiesta del pm Licia Scagliarini si archiviò la morte di Gardini some suicidio. A 25 anni da quella morte le zone d’ombra sono però oggettivamente ancora molte. Quelle che da anni vengono sussurrate da chi Raul Gardini lo conosceva bene. E che in certi casi sono stati la fonte di libri anche dai toni forti. È per questo che per parlare del “contadino” di Ravenna, appellativo che in realtà l’imprenditore detestava, preferiamo partire dalla fine. Ossia da quella mattina del 23 luglio di venticinque anni fa. E mettere in fila ciò che ancora oggi esiste di poco chiaro. Un uomo su tutti ha a più riprese cercato di gettare luce nella nebbia. Nella speranza di vedere qualcosa d’altro che non fosse una Walter PPK rivolta contro se stessi. E non è un uomo qualunque, ma un ex magistrato. Si chiamava Mario Almerighi ed è stato il primo a dire a voce alta che la morte del “banchiere di Dio” Roberto Calvi fu omicidio e non suicidio. Nel 1988 insieme a Giovanni Falcone fu tra i fondatori del “Movimento della giustizia”.

Cosa non tornerebbe

Almerighi tratta il caso Gardini in un libro che definisce il suo intento già dal titolo: “Suicidi?”. In trecento pagine il magistrato affronta e analizza le morti di Sergio Castellari, direttore generale del ministero delle partecipazioni statali, Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, e proprio di Raul Gardini. I primi dubbi di Almerighi girano attorno alla pistola.

Questa venne trovata sul comodino della stanza da letto, ma si giustifica con il fatto che i barellieri dell’ambulanza, arrivati sul posto, testimoniarono di aver sentito Gardini respirare e per questo spostarono tutto (forse anche la pistola) e portarono in tutta fratta il corpo in ospedale. Ma ciò che non tornerebbe in merito all’arma sono le impronte. Quelle di Gardini non c’erano. Dal guanto di paraffina non risultarono poi tracce di polvere da sparo sulle mani del ravennate, così come tracce non vennero trovate né sui cuscini né sulle lenzuola. Nonostante il “corsaro” si sarebbe inferto il colpo ferale proprio seduto sul suo letto.

Parliamo poi dell’autopsia. Vennero trovati due elementi particolari: il primo era una frattura alla base cranica e la seconda una ecchimosi sotto l’occhio. Secondo i medici legali furono la conseguenza dello sparo in testa, ma secondo un altro parere potrebbero essere il risultato di una precedente colluttazione. Infine il famoso biglietto di addio ai famigliari, che si scoprì essere in realtà una lettera di auguri risalente al natale precedente. Frammenti di una tragedia sulla quale la giustizia italiana ha posto però per sempre il timbro del suicidio. E che a 25 anni di distanza da quel 23 luglio contribuiscono a rendere vivo il ricordo di Gardini e quel senso di vuoto improvviso lasciato dentro ogni ravennate

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