Omicidio Minguzzi, dopo 31 anni la Procura riapre il caso

Rimini

RAVENNA

Sono passati 31 anni dall’omicidio di Pier Paolo Minguzzi, il carabiniere di leva figlio di una famiglia benestante di imprenditori di Alfonsine operante nel campo dell’ortofrutta trovato morto nel Ferrarese dopo un rapimento con molti punti oscuri. Un cold case che risale alla primavera del 1987 riaperto dalla Procura di Ravenna che, da indiscrezioni trapelate da ambienti investigativi, sulla vicenda ha avviato nuovi accertamenti, anche in seguito all’appello dei familiari di due anni fa che avevano chiesto all’autorità giudiziaria di andare in fondo a quel mistero irrisolto.

Verso la riesumazione

Ora la svolta su quel fascicolo a carico di ignoti archiviato nel 1996. Sul caso gli inquirenti lavorano nel più assoluto riserbo ma da fonti attendibili si è appreso che Squadra Mobile e Scientifica stanno vagliando il materiale d’indagine raccolto all’epoca sotto una nuova luce. E una mano decisiva che potrebbe portare a sviluppi clamorosi potrebbe giungere attraverso i progressi nel campo dell’analisi e del dna, tanto che non si esclude che il cadavere del ragazzo possa essere riesumato e sottoposto a nuovi analisi e comparazioni.

I fatti dell’epoca

In quel periodo Il 20enne, studente di agraria e ausiliario dell’Arma prima a Bosco Mesola e poi a Mesola, ottenne una breve licenza. Era il pomeriggio del 18 aprile, sabato di Pasqua, quando ricevette l’autorizzazione dai suoi superiori e dopo aver salutato i suoi commilitoni tornò subito a casa. Trascorse la Pasquetta al mare con la fidanzata e poi alla sera andarono a Imola per giocare a bowling. Rientrati ad Alfonsine, il giovane riaccompagnò la ragazza nella sua abitazione. Poco dopo sparì nel nulla. Alle 3 di notte, preoccupata non vedendolo rientrare, la madre avvertì i carabinieri. La sua macchina, una Golf rossa, venne ritrovata parcheggiata in centro con le chiavi nel cruscotto. Nessuna impronta all’interno ma, altra stranezza, il sedile era in una posizione anomala rispetto alla corporatura atletica del ragazzo.

Quella sera stessa si capì che era stato rapito. Alla famiglia arrivò infatti la prima telefonata che poi si scoprirà provenire da una cabina telefonica di Lido delle Nazioni. Ai parenti una persona dall’accento marcatamente siciliano chiede un riscatto, 300 milioni di vecchie lire per poter rivedere Pier Paolo. Richieste reiterate nei giorni a seguire. I familiari chiedono una prova che il figlio sia vivo. Prova che non verrà mai data. Anche perché il primo maggio il corpo del giovane viene trovato nel Po di Volano.

Ad accorgersi del cadavere che affiorava dall’acqua fu un gruppo di canoisti. In avanzato stato di decomposizione, era legato a un’inferriata con la corda attorno al collo che stringendosi, lo portò alla morte.

Un decesso che l’autopsia collocò temporalmente nella prima fase del sequestro, forse anche la sera stessa del rapimento. Fu anche individuato il casolare, una stalla abbandonata nelle campagne di Vaccolino, tra Comacchio e Lagosanto, da cui fu tolta la sbarra di metallo e in cui Minguzzi fu portato e ucciso. La notizia del ritrovamento del corpo non venne diffusa subito; gli inquirenti speravano che i sequestratori si facessero di nuovo vivi per concordare un appuntamento per il pagamento del riscatto. Ma il telefono non squillò più.

Indagini e sospetti

Si indagò a 360 gradi, scandagliando la vita privata della vittima, trovata senza ombre, e prendendo in considerazione scenari legati alla criminalità comune e quella organizzata, ipotizzando che potesse aver visto qualcosa che non doveva vedere e anche che potesse aver riconosciuto qualcuno che conosceva, ma senza esito. Così come senza esito fu il collegamento con quanto avvenne qualche mese più tardi quando un altro imprenditore nel campo dell’ortofrutta della zona fu vittima di un tentativo di estorsione. Anche in quel caso la richiesta fu di 300 milioni, ma la consegna del denaro finì in tragedia. Nella sparatoria che seguì morì un carabiniere, ucciso da un proiettile partito dall’auto in cui c’erano un idraulico e due colleghi infedeli dell’Arma di Alfonsine, uno dei quali siciliano. Per la morte dell’appuntato i tre furono condannati a pene comprese tra i 22 anni e mezzo e i 25 anni. Ma nonostante le tante analogie, le indagini dell’epoca non permisero di ricongiungere i due episodi.

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