«Sono innocente, ma loro hanno già deciso»

Rimini

RAVENNA

Rivendica ancora una volta la sua innocenza («Giulia non l’ho uccisa io», «sono in pace con la mia coscienza, nel poter guardare i miei figli negli occhi») e motiva la sua assenza dalle ultime udienze – quelle della requisitoria del sostituto procuratore Cristina D’Aniello che ha chiesto la condanna all’ergastolo con isolamento diurno per un anno e delle arringhe delle parti civili che hanno avanzato richieste di risarcimento per quasi 4 milioni e mezzo – con la sensazione di trovarsi in un processo in cui la sentenza era «già decisa da prima che iniziasse» e la convinzione «che se ci fosse una giustizia io tra poco dovrei essere in spiaggia a giocare con i miei tre figli».

Riflessioni in 20 pagine

Pensieri e parole che Matteo Cagnoni ha scritto di proprio pugno e inviato al Corriere Romagna. Si tratta della lettera in cui il dermatologo a giudizio per la morte della moglie Giulia Ballestri spiega le ragioni che lo hanno spinto – per la prima volta da quando è iniziato il processo – a non essere presente in aula martedì e giovedì scorsi di fronte alla Corte d’assise.

Missiva di cui si parlava da qualche giorno arrivata ieri alla redazione di via De Gasperi. La data porta la firma del 10 giugno, due giorni prima dell’inizio della requisitoria del pubblico ministero.

Le stoccate

Nella ventina di pagine vergate a mano il medico a processo torna a ribadire la propria innocenza, senza rinunciare a stoccate a Procura, investigatori e parti civili. E nella sua appassionata difesa, in attesa dell’arringa dei suoi legali, gli avvocati Giovanni Trombini e Francesco Dalaiti che prenderanno la parola lunedì, non tralascia frecciate a chi sarà chiamato a giudicare sulla sua colpevolezza o innocenza.

«E’ chiaro che questo non è mai stato un giusto processo» commenta, convinto che i contributi scientifici dei propri consulenti («su cui si gioca tutto») abbiano dimostrato che «l’accusa non ha prodotto un compendio di prove precise e concordanti tali da sorreggere una sentenza di condanna».

La caffeina

Questo perché a suo avviso «ci sono evidenti lacune, incongruenze e financo mancanza di oggettivo supporto scientifico nell’impianto accusatorio al quale la mia difesa ha aperto un grosso squarcio».

E cita «una prova fondamentale e inconfutabile come quella della caffeina. E’ dimostrato che, dopo che io e Giulia avevamo preso un caffè alle 8 del 16 settembre alla pasticceria di via Newton, dopo essere entrati e usciti dalla villa, quando ci siamo separati fisicamente lei ha preso uno o due caffè: dove, a che ora, con chi non è dato saperlo. Magari io ero già a Firenze». E a suo avviso lo dimostra «l’elevato quantitativo di caffeina che aveva nel sangue e nei succhi gastrici».

Tesi che trova conforto nell’analisi dell’anatomopatologa e tossicologa Elia Del Borrello che lo scorso aprile sostenne che l’assorbimento della bevanda non fosse stato ancora completato, indice per lei di un’assunzione più recente rispetto al caffè bevuto col marito quando i due sono stati immortalati dalle telecamere del bar dopo aver accompagnato i figli a scuola.

Il dna

Cagnoni parla anche del dna di un terzo profilo, non individuato, trovato sotto le unghie della moglie che il medico legale Adriano Tagliabracci che ha curato la consulenza genetica ha ricondotto a un tentativo di difesa passiva rispetto a un tentativo di strangolamento. «Di chi è quel profilo genetico? La Procura non l’ha cercato tranne che su di me e sul povero Bezzi». Scrive proprio così, «povero Bezzi» in riferimento all’uomo con cui la moglie aveva allacciato una relazione e che per varie ragioni non vedeva di buon occhio.

«Porta aperta sul terrazzo»

Poi torna a ribadire che nella villa dove è avvenuto il massacro «c’era una porta aperta da settimane sul terrazzo per lasciare sfiatare l’odore di un topo morto ritrovato dove una società specializzata aveva individuato la tana dei roditori». Porta che «permetteva l’accesso alla villa» ma che per l’imputato è stata chiusa durante il sopralluogo della polizia. Elementi che a suo dire smontano le accuse ma che non sarebbero stati valutati adeguatamente «per l’ansia di una Procura» intenzionata a cercare «un colpevole, non il colpevole» e che lo spingono a dire «che in qualsiasi altro tribunale sarei stato assolto».

«Verdetto condizionato»

Parla come se la sentenza fosse già stata scritta. Sfiducia su un verdetto che si fonda sulla sensazione di essere «stato processato e condannato prima che iniziasse il processo». E nel far riferimento alla legitima suspicione invocata e non ottenuta (chiesta perché a suo dire la stampa locale aveva contribuito ad alimentare un clima mediatico contro di lui, ivi compreso questo giornale che in apertura di lettera ritiene che non lo abbia trattato troppo bene durante il processo) torna a fare leva sul possibile condizionamento. «Questa giuria e questo tribunale sono prigionieri di un pregiudizio negativo che domina la communis opinio della città. Il mio è un processo nel quale non sono state rispettate neppure le apparenze della terzietà del collegio giudicante di fronte ad accusa e difesa». Parole dure che rincara. «Alla fine questo processo è diventato un inutile orpello formalistico a una decisione già presa». Salvo poi correggere un po’ il tiro: «e se non è così hanno dato questa impressione».

Eppure non si aspetta sorprese convinto che alla fine «la Corte asseconderà i desiderata dell’opinione pubblica. Sono convinto che non deluderà le loro aspettative – il caso Poggiali insegna – a fronte di un impianto accusatorio debole e sgangherato». Anche perché, chiosa, «manca una cosa, il movente».

«Una vetrina per le parti civili»

Nel mirino finiscono anche le parti civili. Nel definirsi amareggiato «che la famiglia di Giulia (assistita dall’avvocato Giovanni Scudellari, ndr) si sia così precipitevolissimevolmente schierata contro di me e non creda alla mia innocenza, pensavo che mi conoscessero meglio», si dichiara «disgustato dal numero di associazioni ammesse (quattro, Comune, Linea Rosa, Udi e Dalla parte dei minori, ndr) che pronte si sono buttate sull’osso. L’unica che doveva essere ammessa è Linea Rosa che ha il dovere di tutelare le donne e il diritto di pensarmi colpevole. Ma il Comune? Ho la sensazione che ognuno voglia farsi bello, mettersi in mostra e partecipare al banchetto».

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