Lasciato morire dagli amici: arrestati quattro ventenni

Lugo

RAVENNA. «Guarda, se avessi metadone o Xanax ti darei la vita». Sono le parole che Matteo Ballardini – “Balla” come lo chiamavano gli amici – scrive via whatsapp all’amica “Bea”. Si vedono la sera stessa. Circa 16 ore dopo viene trovato morto nell’auto intestata alla madre, parcheggiata al sole nei pressi di via San Giorgio a Lugo. Era il 12 aprile 2017. Ieri, al termine delle indagini condotte per oltre un anno dalla squadra Mobile e coordinate dal procuratore capo Alessandro Mancini e dal sostituto procuratore Marilù Gattelli, sono stati arrestati gli amici che quella notte passarono ore e ore accanto al corpo agonizzante del 18enne, fino a lasciarlo morire in seguito a un’overdose di metadone, antidepressivi e cannabinoidi. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice per le indagini preliminari Andrea Galanti ha colpito la 22enne Beatrice Marani di Lavezzola, Leonardo Morara, 28enne di Lugo, Simone Giovanni Palombo, 22 anni di Lugo, e Ayoub Kobabi, 24enne di origini marocchine e senza fissa dimora. Nei loro confronti l’accusa è di omicidio volontario pluriaggravato, perché quella notte, secondo quanto emerso nel corso dell’inchiesta, fecero di tutto fuorché cercare di salvare l’amico.

Le ultime ore di Matteo

La serata era iniziata nel parcheggio del Mc Donald’s di Lugo, dove Ballardini aveva incontrato la 22enne. Avevano assunto due dosi a testa di metadone. Verso le 23 il giovane aveva avuto un malore. L’amica allora aveva chiamato gli altri chiedendo aiuto. I quattro avevano valutato le alternative: portare all’ospedale il giovane (che tra l’altro stava seguendo un percorso di disintossicazione), oppure lasciarlo sotto casa e scappare dopo aver citofonato. Avevano scelto invece di aspettare. Non solo. Avevano spostato il corpo dal lato guidatore sul sedile passeggero, poi si erano spostati in auto, allontanandosi da quel parcheggio, dal quale poco prima, era passata una pattuglia. Prima si erano fermati in una pasticceria a prendere paste e pizza. Poi avevano fatto tappa in un bar, per acquistare alcune birre. Emblematico il video “clandestino” girato col telefonino dal gestore del locale, quando, vedendo il giovane privo di sensi a bordo della Volkswagen Polo, aveva inquadrato i ragazzi nel totale disinteresse, cercando anche di convincerli a portarlo al pronto soccorso. Ultima tappa, il parcheggio appartato di via San Giorgio dove avevano continuato ad assumere cocaina e addirittura a ballare con la musica a tutto volume.

Le indagini

Spostamenti ricostruiti con esattezza dalle indagini condotte a 360 gradi coordinate dal dirigente della squadra Mobile Claudio Cagnini, che nel corso di un anno sono riuscite a raccogliere i filmati dei sistemi di videosorveglianza, le conversazioni telefoniche dei soggetti coinvolti e numerosissime testimonianze del folto giro di amici. Conoscenti tra i quali la notizia della morte di Matteo si era diffusa a macchia d’olio fin dal pomeriggio stesso del rinvenimento. Era stato il 28enne, Morara, ritornato a vedere le condizioni dell’amico attorno alle 15, a trovarlo senza vita e a dare l’allarme. Gli altri se n’erano andati a casa da un pezzo, fin dalle 7 di mattina, lasciandolo solo, chiuso a chiave nell’auto in sosta sotto il sole primaverile, in quel parcheggio in zona Madonna delle Stuoie.

Il movente

Non usa mezzi termini il giudice nelle 160 pagine dell’ordinanza di arresto. Li definisce «sordi e ciechi» di fronte all’evidenza che l’amico era in overdose, responsabili di un comportamento di «rara inumanità» in una «vicenda reale di rare e proporzionali gravità e complessità». Il ragionamento chiave, che sposta la prospettiva dalla “sfortunata coincidenza di eventi negativi” al dolo, è palese seguendo la penna del giudice: il “quartetto” ha agito per impedire il soccorso da parte di altre persone. Lo ha fatto spostandolo il corpo del giovane ancora in vita, nascondendolo e abbandonandolo. Ma ha anche interrotto “un personale intervento soccorritore”; come quello della madre di Matteo, che all’una di notte ha telefonato al figlio, ormai in uno stato di «totale incapacità di locomozione e autodeterminazione», chiedendo come mai non era ancora rientrato, dato che il giorno dopo aveva una verifica d’inglese. Ha risposto Beatrice, raccontando che il 18enne era in bagno e che presto sarebbe tornato a casa. Una volta conclusa la telefonata, la 22enne decise di spegnere il telefono dell’amico. Chiaro segnale, per il gip, di una decisione ormai presa, di una «condotta materiale e morale» capace di accettare il rischio che la vita di “Balla” potesse spegnersi spostandolo in un luogo appartato, «determinando una lenta e sofferta agonia mortale». Fu questo il prezzo di «una diabolica scommessa: attendere che il ragazzo si riprendesse miracolosamente da solo, con l’accettazione del rischio previsto, concreto e attuale che potesse anche morire». Tutto ciò per garantire l’impunità della ragazza, l’unica fra i quattro, che ormai si era esposta troppo.

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