I consulenti di Cagnoni: «Impronte non attribuibili. E il dna non è di Matteo»

Ravenna

RAVENNA. L’impronta sul muro ritenuta «non utile alla comparazione», come quella sul frigo su cui sarebbero ravvisabili «al massimo una decina di punti», insufficienti pertanto a fare qualsiasi raffronto, hanno portato il consulente dattiloscopico a sentenziare che «non possono essere attribuite a Matteo Cagnoni, così come a nessun altro». Stessa conclusione per le tracce delle scarpe che «non possono essere riconducibili aldilà di ogni ragionevole dubbio» all’imputato. Mentre ai segni sul collo della vittima che hanno portato il medico legale a ipotizzare un tentativo di soffocamento di Giulia Ballestri, forse anche con un paio di guanti, si è aggiunta la valutazione genetica sul profilo di dna isolato sotto le unghie della 39enne, dna ignoto di una terza persona, diversa quindi dal marito accusato di omicidio, che sarebbe riconducibile all’aggressore. Per non parlare poi delle analisi gastriche il cui risultato sposterebbe la morte in avanti di qualche ora.

La strategia

Tramite i propri consulenti la difesa, rappresentata dagli avvocati Giovanni Trombini e Francesco Dalaiti, prova a smontare l’accusa, prima mettendo sotto attacco la “prova regina”, ovvero le impronte sul sangue della vittima, e poi offrendo una ricostruzione dell’omicidio – definito «d’impeto», facendo così venire meno l’ipotesi aggravante della premeditazione – che farebbe entrare in gioco responsabilità di terze persone e uscire di scena il marito.

Davanti al sostituto procuratore Cristina D’Aniello, ai legali di parte civile (gli avvocati Giovanni Scudellari per la famiglia della vittima, Enrico Baldrati per il Comune, Cristina Magnani per Linea rosa, Sonia Lama per l’Udi e Antonella Monteleone per l’associazione Dalla parte dei minori) e ai giudici della Corte d’assise presieduta dal giudice Corrado Schiaretti (a latere Andrea Galanti) la difesa si gioca le sue carte cercando di ribaltare le conclusioni dell’accusa e offrendo una valutazione alternativa degli elementi che per la Procura portano invece ad attribuire al marito la mano che ha ucciso la moglie da cui si stava separando.

Attacco alla prova regina

Nel mirino finisce la cosiddetta “firma dell’assassino”. Si parte infatti dalle impronte isolate nella villa di via Padre Genocchi teatro dell’omicidio che secondo Tommaso Andrea Mondelli, ex funzionario di polizia esperto di dattiloscopia, non avrebbero caratteristiche tali da poter essere oggetto di comparazione contraddicendo non solo i risultati a cui sono giunti la Scientifica e il consulente di parte civile, ma lo stesso perito nominato in sede di incidente probatorio che aveva individuato una ventina di punti caratteristici nell’impronta sul muro e una trentina in quella sul frigo utili per la comparazione con l’impronta prelevata a Cagnoni.

Nel contestare le modalità di valutazione sull’impronta, ritenuta frutto di un’unica impressione dal perito e invece non valutabile come traccia unica dal consulente tecnico, Mondelli ha criticato la sommatoria fatta dei punti di contatto tra parte superiore e inferiore, rilevando «errori dettati dal pregiudizio cognitivo» che avrebbero portato a interpretare e conteggiare minuzie a suo dire non riscontrabili in quella traccia. «Diversi punti non sono quello che sembrano, non sono corrispondenti. Ci sono dissomiglianze e anche un’unica dissomiglianza è sufficiente per dichiarare che l’impronta non è del soggetto a cui è attribuita». Ancor meno confrontabile la “pollice muro” bollata come «di pessima qualità», mentre per la “palmare frigo» i punti di contatto raffrontabili (10) non sarebbero comunque sufficienti a una comparazione visto che in Italia è richiesta una corrispondenza di almeno 16 punti comuni per poter attribuire un’identità dattiloscopica certa.

Conclusioni su cui non sono mancate scintille tra accusa e difesa su attrezzature e modalità di analisi seguite con Mondelli che ha perorato la sua causa facendo riferimento ai rischi di possibili erronee identificazioni citando il caso delle bombe di Madrid e il pubblico ministero che ha evidenziato come in 100 anni di indagini dattiloscopiche in Italia non siano mai stati rilevati errori.

Ipotesi soffocamento

Attriti non sono mancati neppure al pomeriggio quando è stato il turno dell’analisi genetica. Il medico legale Adriano Tagliabracci e la collega Chiara Turchi hanno concordato in parte con con le cause della morte, ricondotta «a un dissanguamento legato a una trauma cranico» nonché «dall’insufficienza respiratoria» conseguente alle lesioni provocate nell’aggressione, rivedendo però l’agonia (ricondotta a un quarto d’ora) e ipotizzando un tentativo di soffocamento desunto da quattro segni sul collo della vittima «sui cui sarebbe stato utile effettuare accertamenti per cercare di recuperare il dna delle dita che hanno serrato il collo». Sempre che, come evidenziato dal presidente della Corte, non fossero stati usati guanti. Ipotesi che lo stesso Tagliabracci prende in considerazione alla luce della superficie dei segni, altrimenti riconducibile solo a dita «enormi». Per i consulenti di parte il tentativo di soffocamento sarebbe avvenuto sulla poltrona del salone con la vittima che avrebbe comunque cercato di difendersi. Da qui il dna trovato sotto le unghie, che non è del marito e che per i periti non è riconducibile a una carezza o un contatto superficiale ma a «un contatto fisico rilevante (energico, ndr) come se Giulia avesse graffiato il proprio aggressore».

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