Cagnoni racconta la sua verità: «Non sono il mostro che l’ha uccisa»

Ravenna

RAVENNA. L’avvio dell’esame di Matteo Cagnoni da parte del sostituto procuratore Cristina D’Aniello inizia senza tanti giri di parole. «Rispetto all’accusa di aver ucciso sua moglie si dichiara responsabile o meno?». Domanda che tornerà anche al termine dell’udienza, dopo oltre sette ore e mezza, quando l’avvocato Giovanni Scudellari, che assiste i familiari della vittima parte civile, chiede se è lui «il mostro che ha massacrato Giulia?». Quesiti ai quali il dermatologo nega: «Non sono stato io, non avrei potuto ammazzare la madre dei miei figli».

Tra la prima e l’ultima domanda di un esame che avrà un’appendice straordinaria lunedì per dare parola alla difesa, Cagnoni rappresenta in aula la sua verità. Una maratona nella quale il medico ripercorre quei giorni di metà settembre di due anni fa intervallati a divagazioni e aneddoti anche di gioventù, come quando a 20 anni conobbe «una ragazza in aereo» ritrovandosi poi «le forze dell’ordine in casa perché faceva parte dei Nar» organizzazione terroristica di destra di cui fu sospettato di far parte perché fu trovato il suo nome e il suo numero nella sua agendina. Fu quello, ha spiegato, il primo contatto choc con le forze dell’ordine, episodio che, unito «all’inchiesta dei Nas da cui venni prosciolto e a quando un mio amico poliziotto mi svegliò nel cuore della notte per dirmi che aveva arrestato due topi d’auto», lo avrebbero indotto a fuggire al momento «del blitz». Una «reazione emotiva legata agli attacchi di panico» di cui soffre «da 30 anni». Attacchi che gli creerebbero «una depersonalizzazione momentanea» e che «sono aumentati da quando sono in carcere». Per quello a suo dire scappò quando vide in giardino agenti in borghese armati che erano andati a cercarlo dopo che la moglie era sparita nel nulla. Fuga rocambolesca nella quale, incrociando una volante, ha raccontato di essere stato colpito «alla tempia con l’anfibio da un agente» che gli procurò «un trauma cranico». Colpo, fa notare il pubblico ministero, di cui non fece cenno nel primo interrogatorio davanti al gip di Firenze. «Se mi chiede perché non è nelle trascrizioni lo spiego subito – riferisce il dermatologo –. In carcere a Sollicciano ho incontrato tanta gente e ho fatto dei sondaggi sul fatto che tutte le persone arrestate sono state malmenate. Non uno che abbia fatto denuncia, io stesso non l’ho fatto perché non me ne fregava niente. Era l’ultimo dei miei pensieri. Lo stesso succede a Ravenna. I “falchi” invece sono stati corretti, nonostante il loro ingresso mi abbia indotto a quella reazione».

Maratona in aula

Cagnoni, giacca chiara, camicia azzurra e cravatta perlata grigia e bianca, offre le sue spiegazioni, quanto più o meno convincenti saranno i giudici a stabilirlo nonostante il brusio in sala. Il medico 52enne ha spiegato di «aver visto Giulia l’ultima volta verso mezzogiorno, un incontro di pochi istanti sotto casa dopo essere stati insieme nella villa, in cui le aveva chiesto se volesse andare a Firenze con lui e i figli. Ma disse che si era organizzata e pensai volesse trascorrere il weekend libero dopo l’accordo sulla separazione con l’amante». O uno degli amanti visto che sospettava che la moglie avesse una seconda relazione. «La sentii al telefono, non si era accorta di me, si accordò per vedersi con qualcuno alle Terme di Punta. Andai anche io, restando nascosto nella pineta, salì in macchina con un uomo, non so chi fosse».

Ha poi giustificato la sua perplessità iniziale di fronte all’allarme per la moglie che non si trovava, ipotizzando che «i familiari la stessero coprendo» e di essersi incontrato con l’avvocato perché «la scomparsa di Giulia poteva aprire scenari sul fronte della separazione per abbandono del tetto coniugale». Ha definito i messaggi sms che hanno indotto la Procura a ritenere che sapesse già della morte prima ancora che fosse stato trovato il cadavere come «la prova più lampante della mia innocenza. Non sono così cretino da uccidere la moglie e inviare messaggi. Per di più mi sembra assurdo commettere un omicidio in una villa di proprietà». E non si è scomposto nemmeno quando gli hanno fatto notare che si era spoliato del patrimonio: «Uno non mette al riparo i propri beni da una moglie destinata a essere soppressa».

Ad ogni domanda, anche sulle questioni più controverse, Cagnoni ha dato sempre una sua risposta. Così sul sangue di Giulia finito sui suoi jeans. «Togliendo gli aghi di pino dal lunotto dell’auto si ferì con un frammento di vetro incollato, un “regalo” per me. Così mi sporcai ma le macchie non erano molto visibili e per errore quei vestiti furono messi via. E allo stesso modo si sporcarono la torcia in auto e anche le scarpe di mio padre». Sul cromosoma y ritrovato sul bastone usato per aggredire Giulia nella villa dell’orrore non si è stupito: «Portai io i ceppi tagliati a Ravenna, possibile che li abbia toccati». Nega invece di aver portato il ramo in via Padre Genocchi. «Sarà stata Giulia, che potrebbe averlo usato per difendersi da uno o più ladri acrobati entrati dalla finestra che avevamo lasciato aperto quando trovammo dei topi morti».

Sulle tracce ematiche di Giulia dei cuscini ha ipotizzato «che potesse essere avvenuto durante un rapporto con qualcuno nella villa», cuscini che potevano essere stati spostati visto che sui letti non c’erano materassi. «A noi era capitato in passato» ha affermato, mentre rispondendo al pm che rimarcava l’assenza di altri liquidi biologici ha ventilato la possibilità «che avesse il ciclo».

Sulle chiamate anomale del sabato dall’utenza fissa di Ravenna a quella di Firenze ha pensato solo «a una comunicazione partita in automatico, io non sono tornato in città quel weekend», mentre la presunta borsetta della moglie fatta sparire era «un vecchio cuscino a fisarmonica di mia nonna che si era rovinato durante a Capodanno e che ho buttato avvolto in vari sacchetti con flaconi di disinfettante scaduto». A metà udienza una delle domande più attese. «Come spiega le impronte attribuite a lei sul sangue di Giulia nella villa?». «Posso solo dire che non sono le mie. Non ho commesso nessun delitto in quella casa».

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