Caso Poggiali, la perizia mette in dubbio l'omicidio

Rimini

RAVENNA. Da tre mesi Daniela Poggiali, l’ex infermiera dell’ospedale di Lugo condannata all’ergastolo per la morte di una paziente, contava i giorni che la separavano dal conoscere, una volta per tutte, l’esito di quella perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna. E adesso gli esiti sono arrivati, portando con loro i primi seri dubbi su un caso giudiziario che ha sconvolto non solo la città, ma il mondo intero. Secondo i tre periti incaricati dal tribunale, «qualunque fattore endogeno (dunque naturale) o esogeno avrebbe potuto determinare la morte di Rosa Calderoni». Un dubbio che potrebbe far venire meno quella sicurezza sulla morte per somministrazione esogena di potassio che fu alla base della sentenza di condanna di primo grado. Ma andiamo per gradi tra le pieghe di un documento di 73 pagine che la prossima settimana sarà alla base di un lunga e dettagliata discussione in aula.

La causa della morte

La paziente Rosa Calderoni morì per cause naturali? Questa è la prima domanda a cui hanno dovuto dare risposta Gilda Caruso, docente di patologia cardiovascolare dell’università di Bari, Mauro Rinaldi e Giancarlo Di Vella, rispettivamente docente di cardiochirurgia e di medicina legale dell’università di Torino. Secondo i periti «in definitiva tutti i riscontri, clinici e laboratoristici, non hanno consentito di identificare una singola causa patologica naturale, a insorgenza acuta, idonea a cagionare, con certezza e alta probabilità, la morte della paziente. Deve osservarsi – aggiungono – che Rosa Calderoni fosse portatrice di un insieme di patologie croniche e che qualunque fattore avrebbe potuto determinarne lo scompenso». Una risposta aperta a più soluzioni dunque, ma che per la prima volta apre le porte anche a una probabile causa naturale per la morte della donna.

La somministrazione di potassio

Vi è stata una indebita somministrazione di potassio alla paziente? Una seconda domanda, a cui i periti rispondono ponendo ancora una volta un dubbio. Stando ai docenti il quadro clinico della Calderoni era «solo in parte compatibile con l’iperkaliemia (eccesso di potassio nel sangue ndr) a concentrazioni letali». In primo grado, su questo punto, fu fondamentale la testimonianza della figlia di Rosa Calderoni, che ricordò come la mattina di quell’8 aprile del 2014 l’ultima infermiera a entrare nella stanza di sua madre per somministrarle le cure fu proprio Daniela Poggiali. L’ex infermiera stette all’interno per 5-10 minuti e proprio su questo punto emergono nuovi elementi dai periti. La paziente quella mattina aveva infatti due accessi venosi, uno al piede e l’altro alla giugulare. Secondo Carusi, Rinaldi e Di Vella «la somministrazione rapida e letale di potassio sarebbe stata possibile solo dalla giugulare», ma questa «avrebbe dovuto causare l’arresto cardio-respiratorio nelle immediatezze dell’infusione». La Calderoni morì invece 60 minuti dopo. La somministrazione nel piede, ritenuta però impraticabile, al contrario avrebbe causato forti dolori, mai accusati dalla paziente.

Il depistaggio

Il sangue con cui venne effettuata sulla Calderoni la nota emogasanalisi delle 9 di quel tragico 8 aprile, che mostrava valori nella norma della donna, secondo l’accusa non era della paziente, ma il prodotto di un tentato depistaggio della Poggiali. Per i periti quel sangue è invece «compatibile con il quadro clinico della paziente».

Le cartelle cliniche

L’ultimo quesito posto dai giudici d’appello riguardava invece la presenza in reparto di una paziente sottoposta a cure a base di potassio. Dall’esame delle cartelle cliniche, stando ai periti in quei giorni una donna era «sottoposta a terapia endovenosa con potassio in pronto soccorso» per una grave ipokaliemia.

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