Ora Cagnoni vuole tornare libero «Datemi il braccialetto elettronico»

Rimini

RAVENNA. A sei mesi dal massacro di Giulia nella sua villa di famiglia, Matteo Cagnoni chiede ancora di tornare in libertà. Un’istanza di scarcerazione è stata infatti depositata venerdì scorso dal suo legale, l’avvocato Giovanni Trombini, al gip Piervittorio Farinella. Cagnoni ha chiesto la scarcerazione o, in alternativa, di ottenere i domiciliari con l’applicazione del braccialetto elettronico. Entro cinque giorni dovrebbe avere una risposta. Ma il giudice prima dovrà valutare anche il parere della Procura di Ravenna che, con ogni probabilità, sarà del tutto contraria all’ipotesi.

L’istanza di scarcerazione presentata venerdì lascia però trasparire un certo ottimismo da parte della difesa del dermatologo 51enne accusato di aver ucciso a bastonate la moglie 39enne – madre dei suoi tre figli – con la quale si stava separando dopo che lei gli aveva manifestato l’intenzione di andare a convivere con un altro uomo. «Pensiamo – dichiara l’avvocato Trombini – che non ci siano più le condizioni necessarie alla sua permanenza in carcere in vista del processo».

Cagnoni, dalla sua cella di Port’Aurea, continua a ribadire la sua innocenza e recentemente è stato anche visitato da uno psichiatra. A giorni, in caso di richiesta di giudizio immediato, dovrà anche decidere se essere processato con rito abbreviato o presentarsi di fronte alla Corte d’Assise.

Contro di lui gli elementi raccolti dalla Mobile – coordinata dal pm Cristina D’Aniello e dal procuratore capo Alessandro Mancini – sembrano essere però schiaccianti. Nella villa del delitto ci sono infatti le sue impronte lasciate sul sangue della vittima. Dato che – dopo il confronto tra consulenti nell’incidente probatorio del febbraio scorso – avrebbe già la valenza di una “prova regina”. Ma Cagnoni dovrà anche spiegare perché nella sua casa di Firenze, al momento del suo arresto, vennero trovati dei cuscini provenienti dalla villa del delitto imbrattati col sangue della povera Giulia. Contro di lui ci sono inoltre anche le dichiarazioni della anziana madre che a un poliziotto, appena entrato in casa per arrestare il dermatologo, disse “Giulia non è qui, perché è stata uccisa da un albanese nella villa di Ravenna”. Ma in teoria la donna ancora non era stata nemmeno informata del delitto e per l’accusa sarebbe una sorta di prova di una “versione preconfezionata” da proporre agli inquirenti. E poi resta il mistero dell’antifurto inserito nella casa di via padre Genocchi. Come poteva, quella combinazione numerica, essere conosciuta da un aggressore estraneo alla famiglia? Senza contare, inoltre, le tracce di sangue trovate sulle Timberland messe a lavare e sequestrate a Firenze e lo “strano” viaggio a Bologna, fatto insieme al padre, per parlare con un avvocato proprio il giorno prima del ritrovamento del cadavere di Giulia. Un quadro accusatorio già molto articolato, ma che potrebbe persino non essere definitivo. Perché solo dopo la conclusione delle indagini la procura avrà l’obbligo di calare tutte le sue carte davanti alla difesa. E – almeno in teoria – potrebbero esserci altri assi da giocare.

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