La Procura: condannate l'infermiera all'ergastolo

Rimini

RAVENNA. Dopo averle iniettato le fiale di potassio avrebbe «cambiato l’agocannula del deflussore» e «sostituito la provetta di sangue» da inviare al laboratorio analisi. Un modus agendi che Daniela Poggiali avrebbe adottato nel tentativo di «depistare l’attenzione su di sé» dopo aver «innalzato il livello della sfida».

Per il sostituto procuratore Angela Scorza infatti, l’ex infermiera a processo per la morte di Rosa Calderoni, la paziente 78enne deceduta l’8 aprile del 2014 all’ospedale di Lugo, avrebbe ucciso «non per pietas, per un malinteso senso di umanità per porre fine alle sofferenze dei degenti», bensì per il «compiacimento di ergersi ad arbitro della vita e della morte delle persone affidate alle sue cure».

Per questa ragione, ravvisando la responsabilità penale dell’imputata, la pubblica accusa ha chiesto la condanna «all’ergastolo con isolamento diurno per un anno e mezzo». Il massimo della pena in considerazione delle circostanze aggravanti della premeditazione, dell’aver agito per motivi abietti e per l’impiego di un mezzo venefico, a fronte delle quali per la Scorza non vi sono i presupposti per il riconoscimento di attenuanti, neppure «l’incensuratezza» dell’imputata che, sottolinea, «è peraltro solo formale considerando che sono in piedi altri procedimenti penali».

Un silenzio assordante ha accompagnato l’appassionata requisitoria del pubblico ministero, quasi cinque ore durante le quali, richiamando i filosofi Michel De Montaigne e Jacques Lacan, ha ricostruito l’intera vicenda, analizzando ogni aspetto e soffermandosi in particolare sui dati statistici relativi ai decessi anomali («una divergenza tra gli 87 e i 90 casi in più rispetto ai colleghi quando era in servizio, differenza che i consulenti hanno escluso possa essere ricondotta al caso o alla sfortuna») e sulle foto choc «mostrate come trofeo» costate all’infermiera il posto di lavoro.

Per il sostituto procuratore non ci sono dubbi sul fatto che Rosa Calderoni sia stata uccisa («abbiamo dimostrato che non è morta per cause naturali») né sulle modalità che hanno provocato il decesso di una paziente con una situazione clinica seria ma non grave, compromessa dalla somministrazione del potassio («trovato in dosi non terapeutiche nell’umor vitreo della deceduta e nel deflussore»).

Un quadro accusatorio forte, ma di per sé non sufficiente per condannare l’ex infermiera oltre ogni ragionevole dubbio. Occorreva dimostrare che era stata la Poggiali a iniettare «non colposamente» la sostanza killer nel corpo della paziente. Cosa che per l’accusa avrebbe fatto quel mattino. «E’ stata l’unica a somministrare la terapia quel giorno quando avrebbe potuto uccidere Rosa Calderoni in due momenti». Finora si pensava che la cosa potesse essere avvenuta quando, poco dopo le 9, il medico vedendo la degente stare male effettuò un prelievo di sangue da sottoporre ad emogasanalisi prescrivendole il konakion. Per la Scorza invece il potassio venne impiegato prima, tra le 8.10 e le 8.20, quando cioè la Poggiali entrò nella stanza della malata facendo uscire la figlia. «Non c’era bisogno di allontanarla, eppure la mandò fuori e rimase sola con lei un quarto d’ora. Sapeva di essere sospettata ma decise di alzare il livello della sfida. Non potendo infondere il contenuto delle fiale nella flebo perché attraverso la diluizione non si sarebbe verificato l’effetto letale né potendo iniettarglielo in vena perché così facendo sarebbe morta in pochissimo tempo e sarebbe stata scoperta, sfruttò tutta la sua competenza inserendo il potassio o nei fori dello sperone o attraverso la valvola della camera di gocciolamento. Un’operazione che richiede alcuni minuti». E per sviare i sospetti, nel lasso di tempo tra il prelievo di sangue della paziente (le 9.05) e l’invio del campione al laboratorio analisi (le 9.35) avrebbe «cambiato l’agocannula del deflussore inserendone una in cui è stato trovato il profilo genetico di un uomo, sostituendo anche la provetta. Questo spiega perché furono evidenziati valori nella norma. Semplicemente perché il sangue analizzato non era quello di Rosa Calderoni».

Escluse altre ipotesi alternative che il pm assicura di aver cercato. Le uniche cause «possibili ma non percorribili» sarebbero state «un trauma oculare a entrambi gli occhi o l’overdose». Oppure l’intervento di altre persone, aspetto che viene meno secondo il magistrato «perché la Poggiali era l’unica ad essere rimasta sola con la paziente, come era sua abitudine anche quando non era necessario».

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