Donna uccisa, l'omicida non era solo

Rimini

 

RAVENNA. Spunta un complice nel delitto di via Lago di Ledro. Giuseppe Napoli, il 55enne di origini catanesi, attualmente in carcere con l’accusa di aver ucciso l’ex “cognata” Anna Maria Bartolotti il 2 dicembre scorso, secondo gli inquirenti potrebbe non aver agito da solo. Molti elementi portano alla conclusione che l’uomo si sarebbe avvalso dell’aiuto di una seconda persona nei minuti immediatamente successivi al delitto o addirittura durante la brutale aggressione alla 75enne, uccisa (secondo l’accusa) dopo essersi rifiutata di dare altro denaro all’uomo che, in passato, aveva avuto una relazione con la sorella Luisa (di 23 anni più grande di lui) e ora ospite di una struttura protetta.

L’indagine condotta dal pm Angela Scorza sta infatti vivendo una nuova delicatissima fase, soprattutto alla luce di quanto rivelato dall’autopsia.

A non convincere gli inquirenti è infatti proprio il vero e proprio abisso esistente tra il referto del medico del 118 che accertò la morte della donna e la relazione del medico legale Vito Cirielli delegato dalla procura.

Nel primo caso si certificava addirittura un’assenza di evidenti segni di violenza sul corpo della donna. Conclusioni a dir poco smentite da Cirielli che parla esplicitamente di un corpo lasciato in condizioni paragonabili a quello di una persona investita da un’auto. Con diverse costole rotte, lesioni interne, ma addirittura con i segni di una “stilettata” in gola e di abrasioni dovute a un possibile tentativo di soffocamento eseguito utilizzando un maglione, forse quello della stessa vittima. Ma allora come è stato possibile - si chiedono gli uomini della squadra mobile - non trovare all’interno della casa nessun segno di disordine? Si fa per questo largo l’ipotesi di un tentativo di alterazione del luogo del delitto e di probabilissima “ricomposizione” del cadavere. Ma Napoli - di lì a poco alle prese con un malore - era nelle condizioni di fare tutto da solo? Pare di no. E pare certo, stando agli ultimi accertamenti di un’indagine seguita in prima persona anche dal procuratore capo Alessandro Mancini, che lo stesso Napoli sia stato aiutato da qualcuno anche ad arrivare in ospedale, dove si presentò con dei vestiti imbrattati di sangue. Sangue che qualcuno avrebbe cercato di eliminare con dell’acqua in maniera sbrigativa per non dare nell’occhio. E’ chiaro che le analisi del dna disposte su quei capi d’abbigliamento, così come su un anello sequestrato in casa di Napoli, potrebbero fornire agli inquirenti la cosiddetta “prova regina” di un’inchiesta che però già conta su riscontri importanti: come la presenza sul luogo del delitto dell’indagato segnalata dal suo cellulare e , soprattutto, le tante contraddizioni dell’uomo.

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