Caso amianto, chiesto il rinvio a giudizio

Rimini

RAVENNA. Da un lato, quello delle difese, la richiesta di escludere la posizione di sette degli attuali ventidue a giudizio (già calati rispetto ai venticinque iniziali per effetto di alcuni decessi e destinati a scendere ulteriormente per la morte avvenuta di recente di uno degli indagati) sulla scorta di convenzioni stipulate negli anni Ottanta tra l’Anic e le altre società che nel tempo si sono succedute nella gestione degli impianti e la presunzione dell’avvenuta prescrizione.

Dall’altro, quello dell’accusa, la considerazione che i termini per il reato di disastro colposo (per l’Inail, costituitasi parte civile, sussisterebbero persino i presupposti per l’ipotesi del dolo) non sono ancora scaduti in considerazione dell’effetto epidemico delle malattie da amianto tra gli ex lavoratori ancora in corso e la sostanziale irrilevanza del contenuto degli accordi prodotti dai legali degli imputati, per i quali il sostituto procuratore Roberto Ceroni ha chiesto il rinvio a giudizio.

Visioni contrapposte che hanno caratterizzato ieri l’udienza preliminare davanti al gup Piervittorio Farinella nell’ambito del maxi processo sulle morti e le patologie legate all’amianto al petrolchimico che vede come parti offese 75 operai, la metà dei quali deceduti, che hanno contratto gravi patologie (asbestosi, mesotelioma polmonare, carcinoma polmonare e placche pleuriche) in seguito all’esposizione avvenuta durante gli anni in cui hanno lavorato nel distretto industriale ravennate.

Quello che viene contestato agli indagati - addetti alla sicurezza, dirigenti e legali rappresentanti delle società che tra il 1957 e la metà degli anni Ottanta hanno gestito il polo chimico - è sostanzialmente di aver omesso di informare i lavoratori dei rischi per la salute e di non aver fornito loro strumenti di protezione al fine di evitare il contatto con il minerale e l’inalazione delle polveri nonostante, come rimarcato dalle parti civili, fosse nota da tempo, dalla fine dell’Ottocento, la pericolosità dell’amianto. Condotte per le quali sono chiamati a difendersi a vario titolo dalle accuse di omicidio colposo e lesioni, oltre che di disastro, sul presupposto non solo della conoscibilità ma anche dell’evitabilità dei rischi per la salute dei lavoratori, che invece non sarebbero stati presi in considerazione.

Ma le persone individuate dalla pubblica accusa sulla scorta dalla posizione ricoperta in seno alle aziende a cui faceva campo l’impianto produttivo sono tutte responsabili? No in base all’interpretazione data dai legali degli imputati alla produzione documentale depositata, alla luce della quale si evince, a loro avviso, che alcune delle figure non avevano compiti in materia di sicurezza. Sì invece secondo la Procura, che non ha ravvisato nella documentazione prodotta dalla difesa estremi per escluderla in capo ai sette indicati dai difensori (tra cui figurano gli avvocati Grosso del foro di Torino, che tutela anche la Syndial, società del gruppo Eni chiamata in causa come responsabile civile, Maspero, Lucibello e Simoni di quello di Milano, Bolognesi di Ferrara e Visani di Ravenna). Per tale ragione il pm - dopo una pausa di un paio d’ore concessa per consentirgli di valutare il contenuto degli accordi presentati - ha chiesto per tutti il rinvio a giudizio. Richiesta sostenuta anche dai legali di parte civile, gli avvocati Scudellari, Primiani, Madonna, Fanelli, Casadio, Burgo, Baroni, Giuliano, Vannucci, Ceccarini, Zanforlini e Mancini.

Terreno di scontro tra le parti sono state anche le ragioni alla base dell’accusa di disastro colposo e i termini di prescrizione, anche alla luce dell’interpretazione delle sentenze relative all’analogo processo di Torino. Per i difensori degli imputati, infatti, il reato si sarebbe prescritto poiché l’esposizione dei lavoratori sarebbe cessata nel 1991, anno in cui la pericolosità dell’evento si sarebbe esaurita in seguito alle novità legislative introdotte e alla bonifica dei vari siti. Secondo tale assunto, nella pratica l’insorgenza della malattia tra gli operai sarebbe una conseguenza di un evento precedente e i casi in oggetto, molti dei quali prescritti, andrebbero trattati singolarmente. Per accusa e parti civili, viceversa, il fenomeno epidemico costituisce uno degli elementi che concorrono ad integrare l’evento del disastro; in sostanza, la consumazione del reato è ancora in atto come ribadito dall’avvocato Giovanni Scudellari (che tutela anche l’Ausl), secondo il quale il termine da cui dovrebbe decorrere la prescrizione non è ancora maturato dal momento che l’insorgenza della malattia e l’aggravamento clinico ancora in atto ne stanno procrastinando i tempi di riferimento. Infatti, come rimarcato anche dall’avvocato dell’Inail, Gianluca Mancini, il picco della malattia è atteso tra il 2020 e il 2022; per questo, a suo avviso, il processo va visto nel suo insieme, senza che possano essere scissi i singoli casi di malattia o decessi anche sotto il profilo della prescrizione, valutando anche i presupposti per un’ipotesi di disastro «non solo colposo ma anche doloso». A fine mese la prossima udienza. (gi.ro.)

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