«Gli ho puntato la pistola alla tempia e ho sparato. Pensavo fosse scarica»

Rimini

«Mentre Andrey era sul divano alla Playstation smanettavo con la pistola. Scarrellandola sono usciti dei proiettili inesplosi; pensavo fosse scarica e per giocare la puntavo alla sua tempia. Premevo il grilletto quando è partito il colpo che ha ucciso il mio amico». E’ il racconto fatto alle forze dell’ordine da Marin Gjeloshi, il 22enne albanese in stato di fermo per la morte dell’amico Andrey Goncharov, freddato da un proiettile calibro 7.65 esploso con un’arma risultata rubata che l’indagato attualmente in carcere aveva acquistato quello stesso pomeriggio. Quando è partito il colpo è andato nel panico, come gli altri ragazzi presenti in quella serata di scherzi e sballo: «Mamma mia cosa ho fatto. Mi sono rovinato la vita». Poi la fuga.Si erano ritrovati a casa di un amico comune i cui genitori erano in vacanza. Coetanei di varie nazionalità, accomunati dalla passione per la musica e i videogiochi, ma non solo. Nel corso del pomeriggio infatti Gjeloshi aveva acquistato anche dell’hashish per fumarlo in compagnia. Qualcuno di loro inoltre, aveva avuto qualche guaio con la polizia; il padrone di casa per furto e minacce, mentre uno dei connazionali che lo aveva accompagnato era stato denunciato per furto aggravato. Gjeloshi invece era irregolare in Italia dopo il mancato rinnovo del permesso di soggiorno. Piccole grane, nulla di che. Eppure in quel contesto è spuntata l’arma che ha catapultato tutti in una storia più grande di loro.

Stando al racconto dell’indagato, alle 18 Gjeloshi era tornato dalla famiglia, raggiunto in un secondo tempo dalla vittima che aveva conosciuto tre anni fa. Un paio d’ore dopo i due sarebbero andati insieme al campo da basket dove avevano appuntamento con altri due albanesi e da lì si sarebbero spostati a casa del bosniaco. Per un po’ avrebbero giocato e scherzato. Al computer, ma purtroppo anche con la pistola.

Dopo la morte di Andrey, le grida e il fuggi fuggi. I primi a scappare sono stati i connazionali che avevano accompagnato Gjeloshi, seguiti dal 22enne albanese che, dopo essere entrato e uscito dalla porta di casa alcune volte, è corso lungo l’argine del Lamone. Raggiunto dall’amico bosniaco, si sarebbe poi fermato dicendogli di chiamare i soccorsi e le forze dell’ordine: «digli che sono stato io». Poi sarebbe andato via in preda al panico. A piedi attraverso i campi, nel cuore della notte avrebbe poi raggiunto Castel Bolognese, dove vive un conoscente che l’ha ospitato e a cui avrebbe raccontato tutto. «E’ stato lui a consigliarmi di costituirmi come ho fatto». (gi.ro.)

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