Lo chef Gino Angelini: «il mio sogno sarebbe quello di aprire un ristorante anche a Rimini»

Rimini

Gino Angelini è uno degli chef italiani più conosciuti in America, eppure ha saputo mantenere intatta l’umiltà e la genuinità che infonde anche nella sua cucina e nel suo regno, l’Osteria Angelini di Los Angeles. Classe 1953, ha mosso i primi passi ancora adolescente nelle cucine dell’hotel Imperiale di Rimini poi, dopo esperienze in giro per lo Stivale, arriva all’Ambasciatori e, passando per la parentesi al ristorante Brini di Ravenna, giunge al 5 stelle Grand Hotel Des Bains di Riccione. Infine l’avventura e la partenza oltreoceano dopo vive da circa 20 anni, ma senza aver mai abbandonato le sue radici.
Dal 2001 ha aperto nel cuore di Los Angeles l’Osteria Angelini, punto di riferimento indiscusso per chi ama i veri sapori italiani.

Quest’estate è tornato a Rimini, nella sua città, prendendo parte a una serie di serate che lo hanno visto protagonista come grande esempio di cucina. Tra queste le cene dedicate a Sigismondo Malatesta ambientate nel Castel Sismondo in cui ha saputo far incontrare le ricette e gli ingredienti dell’epoca, accostandoli a soluzioni contemporanee affiancato da un solido team di chef e amici della zona; o l’evento dedicato al suo maestro Gualtiero Marchesi al ristorante Quarto Piano.

Angelini, come hanno dialogato tra loro le ricette dei Malatesta e quelle di oggi?
«Abbiamo attinto dal libro di Luisa Bartolotti scegliendo i piatti e soprattutto gli ingredienti usati a quei tempi – spiega lo chef – . Ogni piatto veniva servito in due modi diversi accostando le due epoche, ed è stata fondamentale la collaborazione dei miei amici chef. Per riprendere il simbolo dei Malatesta abbiamo ideato un risotto alle rose e utilizzato in generale molte spezie, primo tra tutti lo zafferano che era amato perché richiamava l’oro».

Invece nel suo ristorante in California quali sono i piatti più apprezzati?
«Quelle che vanno per la maggiore sono le lasagne di nonna Elvira dedicate a mia nonna, impreziosite da me con un ciuffo di spinaci fritti; poi piacciono molto anche il branzino al sale e i cappelletti con il brodo di cappone e manzo (per loro è una rarità perché lo fanno solo con il pollo). Nel mio ristorante ho scelto di mantenere la vera tradizione della cucina italiana classica: tagliatelle, ravioli, pasta fatta a mano con ottime materie prime che si trovano anche là. I cuochi e i camerieri sono tutti italiani, con l’aiuto di hostess americane per la gestione della sala, e stiamo attenti alle esigenze di tutta la clientela (vegetariani, vegani, gluten free). Bisogna sfatare l’idea che gli americani non capiscono quello che mangiano, sono molto più informati ultimamente: occorre rimanere fermi sulle nostre idee senza scendere troppo a compromessi e arrivare pian piano alla comprensione, educando i gusti. Ci sono persone che vengono a mangiare anche tre volte alla settimana e per me è una grande soddisfazione. È un ambiente da 50 posti dentro e 10 fuori, con tavoli vicini, quindi a volte si crea una situazione davvero familiare tra i commensali».

Tra i clienti ci sono anche vip?
«Sì, ne vengono molti perché noi non chiamiamo i fotografi appena li vediamo arrivare, come fanno gli altri ristoranti. A volte faccio delle gaffe e il mio staff se la ride perché non li riconosco (lavorando sempre, non ho molto tempo per andare al cinema) e parlo con loro in un inglese un po’ maccheronico! Sono venuti Al Pacino, Leonardo Di Caprio, John Travolta, Joe Pesci, Cameron Diaz, Justin Timberlake e tanti altri».

Cosa ne pensa dei talent show dedicati alla cucina?
«Penso siano belli per la visibilità e la pubblicità, ma la cucina non è così facile. Non è detto che tutti arrivino fino in fondo nella professione perché ci vuole tanto sacrificio e una bella gavetta prima».

Che rapporto ha con la sua città d’origine?
«Mi manca tanto e il mio sogno sarebbe quello di aprire un ristorante anche a Rimini. A mia moglie, che è americana, piace molto e quindi in futuro potremmo pensare di dividerci un po’ qua e un po’ là. Vedremo, noi ci proviamo sempre!».

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