L'intervista: Tea Falco prende il volo

Rimini

Un viso che non passa inosservato e una lunga chioma bionda: sono queste le caratteristiche che contraddistinguono l’artista Teresa Falsone, meglio conosciuta con il nome d’arte Tea Falco, siciliana doc che ha lasciato la sua Catania per raggiungere la capitale. Classe 1986, l’attrice è stata lanciata sul grande schermo da Bernardo Bertolucci nel film “Io e te”. L’abbiamo vista vestire i panni della figlia viziata di un ricco imprenditore milanese nella serie “1993” in onda su Sky Atlantic. Tea Falco però non è soltanto un’interprete molto desiderata dai registi, ma è anche una fotografa e una regista, è insomma una vera e propria amante dell’arte.
“Ceci n’est pas un cannolo” è il docufilm che segna il suo esordio alla regia; racconta il tentativo di svelare la natura cangiante della realtà, che muta a seconda dell’osservatore e della sua identità. Attraverso le opinioni di venti personaggi, Tea Falco fa una sorta di analisi antropologica della sua isola.
Ne abbiamo parlato con lei, ripercorrendo la carriera della giovane attrice siciliana che ha deciso, in un modo o nell’altro, di entrare a far parte del difficile mondo dello spettacolo.

Falco, “Ceci n’est pas un cannolo” segna il suo debutto alla regia. Ci spiega com'è nata l'idea di questo documentario?
«Volevo dare un altro volto alla Sicilia fuori dal suo cliché mafioso. Ogni paese ha la sua mafia e microcriminalità. In Sicilia la mafia è quasi diventata folclore, fanno pure le magliette. A parte questo, attraverso i siciliani ho cercato un senso della vita, ispirata dal “Senso della vita” dei Monty Phyton e dalla ricerca artistica di Franco Battiato».

Perché ha scelto proprio questo titolo?
«Il titolo in realtà è un’ispirazione magrittiana. Durante il giro di scouting per trovare i personaggi in Sicilia, abitavo a Bruxelles per imparare il francese. Amo il surrealismo, penso che nel periodo storico che stiamo vivendo ci sia del surrealismo e lo troviamo sulle immagini che scorrono su Instagram»

Insieme realtà e immaginazione in questo documentario. In che modo è riuscita a farli convivere?
«Quello che immagini nella vita diventa reale e il reale chissà se è solo frutto dell’immaginazione di un qualche dio grasso che mangia il gelato in spiaggia».

Ha girato in Sicilia, una terra contemporaneamente affascinante e terribile. È d'accordo?
«Terribile se sei cresciuto con delle regole, amabile se cerchi la libertà dalle regole. La televisione degli anni 90 ha fatto tante stragi anche in Sicilia, ma mi piace vivere dove c’è il mare e il pesce, penso sia la vita naturale».

Lei ha da poco lanciato il suo nuovo progetto audiovisivo intitolato “Virale”: di cosa si tratta?
«Interpreto un personaggio, una cantante che si chiama Nea. È il personaggio che più mi somiglia. Ho deciso di utilizzare come mezzo espressivo la musica perché mi dà la possibilità, con l’ausilio del video, di arrivare alla mia generazione. Nelle canzoni analizzo il momento storico e parlo di temi sociali. Le basi sono di Parallel Realease. È un progetto un po’ anni 90 post pop futuristico».

«Una fotografia non è né catturata né presa con la forza. Essa si offre. È la foto che ti cattura», questo affermava Henri Cartier-Bresson. Per lei cosa rappresenta la fotografia?
«Bresson parla di sincronicità. La fotografia impressiona quel momento in cui capisci che la vita viene governata da te e dalla tua mente, ma c’è molto di più. Nel mio documentario uno psichiatra spiega che cos’è la sincronicità e due fisici quantistici parlando di entanglement quantistico. In qualche modo questo esperimento avviene conseguentemente a questa teoria junghiana, Jung tra l’altro teneva delle corrispondenze epistolari con Pauli. Si può dire che Jung sia il primo psicoanalista quantistico del mondo e anche l’ultimo forse. Tutto questo è importante perché per me spiega l’esistenza di Dio senza Dio, anzi l’esistenza di Dio dove Dio siamo noi. Su questa palla che è la terra siamo nati per caso, ma siamo tutti collegati. Questo è meraviglioso. Una tela armonica».

Chi è Tea Falco?
«Mi sento come Arlecchino, il suo vestito era fatto con le toppe di tutti i personaggi. Mi sento addosso tutte le persone che ho incontrato nella mia vita. Le sento tutte».

L'abbiamo vista in “Io e te”, diretta da Bernardo Bertolucci. Cosa ha significato per lei essere diretta da questo maestro del cinema? Che cosa le ha insegnato?
«La frase che mi ha colpito di più di Bernardo è stata: “Quando ero piccolo mio padre diceva che alcuni oggetti erano poetici e altri no. Sono cresciuto con questa idea, e poi ho fatto il regista”. Bernardo è una persona meravigliosa».

Nel film interpreta Olivia. Che tipo di ragazza è?
«È una ragazza problematica che cura la mancanza d’amore da parte del padre con l’eroina. È una ragazza fragile che non vuole soffrire ma che alla fine soffre come tutte le persone che cadono nelle droghe».

Quanto e com'è stato interessante stare all'interno di un perimetro narrativo ben preciso senza poterne uscire?
«Non volevo più uscire, perché sapevo che sarebbe finita e se ci penso, avrei voluto viverli di più quei momenti. Sul set l’ultimo giorno piangevamo tutti, perché avevamo fatto una poesia. Eravamo i suoi oggetti poetici».

“Io e te” finisce con un inedito David Bowie che canta in italiano “Ragazzo solo, ragazza sola”. Che cos'è per lei la solitudine? Ritiene che oggi i ragazzi si sentano soli?
La solitudine è un allineamento di pianeti sbagliato. La solitudine è mancanza di sole, dove c’è il sole non c’è solitudine».

L'abbiamo vista anche diretta da Carlo Verdone in “Sotto una buona stella”. Nel periodo storico in cui viviamo cosa vuol dire per lei nascere sotto una buona stella?
«Significa avere la possibilità di fare quello che ci piace e non quello che si deve. Significa poter scappare da una situazione e avere la forza di scappare da se stessi se è necessario».

È stata tra i protagonisti di “1992” e “1993”. Che anni sono stati quelli?
«Oggi assistiamo nella moda e nella musica a una contaminazione di gusti e tendenze anni Novanta. Speriamo che non succeda anche nella politica, oggi come allora: un surrealismo anni Novanta».

In questa serie tv firmata da Sky ha vestito i panni di Bibi Mainaghi, figlia problematica di un imprenditore corrotto della Milano da bere, personaggio al quale regala una fortissima carica comica e grottesca. Come definirebbe il suo personaggio? E la corruzione e la criminalità?
«Ogni Paese ha la sua corruzione. L’uomo è nato animale e per sopravvivere nella savana deve uccidere. Anche l’uomo, a volte preso dal solo istinto senza ragione, non guarda i suoi simili. Fortunatamente non tutti siamo uguali. In Messico spariscono le persone, in Brasile uccidono veramente per niente. La microcriminalità è giungla. Il mio personaggio fa parte di un gioco di potere e l’unico modo per fuggire è andarsene».

Lei è mai stata in Romagna? Se sì, come le è sembrata?
«Federico Fellini era romagnolo, allora anche la Romagna è surrealista. “Ceci n’est pas un tortellino”».

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