Il guardiano del Barbotto

Rimini

Non è in montagna ma nel suo genere è una specie di rifugio. Un po’ santuario laico, un po’ museo: foto più o meno sbiadite appese alle pareti, magliette, cappellini, libri e cartoline con dediche speciali e altri oggetti che raccontano storie a due ruote, il monumento dedicato a Pantani e l’insegna: “Colle del Barbotto, il mito crudele del ciclismo: la sfida più affascinante della Romagna”. Siamo a 515 metri sul livello del mare. Da una parte la Valle del Savio con Mercato Saraceno, dall’altra lo sguardo spazia verso San Leo, San Marino, Rimini. Il bar ristorante Barbotto è un luogo dove la fatica dei pedalatori trova casa, ristoro e nutrimento di memoria. Su questo incrocio sono volati via Coppi e Bartali. Qua è passato Eddy Merckx che nel Giro d’Italia del 1973, braccato da Fuente, dopo aver sofferto il 15% di pendenza dell’ultimo chilometro urlò «maledetto Barbotto!». Qua saliva Marco Pantani quando si allenava nei suoi lunghi giri in solitaria in cerca della forma migliore. E qui sbuffano e ansimano ogni anno ciclisti di ogni angolo della Romagna e di ogni parte del mondo, alle prese con la Nove Colli o semplicemente in vacanza, anonimi cicloturisti bavaresi in libera uscita da Pentecoste o vip alle prese con la propria passione come Linus o Jovanotti. Francesco Mazzoni, 41 anni, potrebbe essere definito come “il guardiano del Barbotto”. Da queste parti è nato e cresciuto. «I miei nonni erano contadini», racconta. «Avevano messo su un chiosco e la domenica per “riposarsi”... facevano la piada». La gente per un giorno dimenticava la vita dura dei campi. Qualcuno portava un grammofono e si ballava. Negli anni Settanta il chiosco si ingrandisce e la mamma di Francesco comincia a mandare avanti un vero e proprio bar che fa anche da mangiare. I ciclisti diventano presto i clienti più affezionati: il bar diventa una specie di oasi nella sofferenza della salita, un premio a chi arranca sui tornanti finali del gran premio della montagna. «I primi cicloamatori» spiega Francesco, «da queste parti venivano visti con sospetto. Chi non lavorava era un vagabondo! Non c’erano le barrette di oggi, così mia mamma usciva di fuori e portava loro le uova sode...». Oggi l’80 per cento dei clienti del bar è costituito da ciclisti. «Gli stranieri sono affezionati al Barbotto come se fosse un passo alpino. Vogliono farsi la fotografia davanti al bar, davanti ai cartelli e al monumento di Marco. Tramite gli alberghi e le guide ciclistiche prenotano il pranzo da noi, anche perché siamo in una posizione baricentrica rispetto ad alcuni giri molto belli tra la valle del Savio e la Valmarecchia». Da Rimini o da Cesenatico siamo a poco più di 40 chilometri di distanza. Francesco abita e vive al bar. Dal 2012, quando è morta la mamma, manda avanti la baracca da solo. È stato fra i primi a dotarsi di materiale per l’assistenza dei ciclisti: camere d’aria, bombolette, copertoni, chiavi... mette a disposizione una piccola officina per le riparazioni e offre persino la possibilità di ricaricare la batteria delle bici elettriche. “Guardiano” del Barbotto, custode della memoria ciclistica del posto, Mazzoni si è dovuto dotare anche di occhio “clinico”. «Spesso, specie nelle giornate calde, c’è chi arriva fin quassù e si sente male. Me ne accorgo dallo sguardo. Allora cerco di farlo bere ma penso anche agli zuccheri. Qualche volta però le cose sono più gravi e allora dobbiamo chiamare il 118, in media un paio di volte l’anno arriva l’elicottero». «Molti mi chiedono come faccia a vivere qua da solo, col bar sempre aperto, tranne quelle giornate invernali di neve o brutto tempo. Eppure è la mia vita e non la cambierei. I ciclisti sono il mio mondo e io sono felice di poterli aiutare, di dar loro conforto a qualsiasi ora (adesso fanno anche la Nove Colli in notturna!). La fatica azzera le classi sociali e unisce i popoli. Un giorno ho avuto ospiti, nella stessa lunga tavolata, tedeschi, austriaci, francesi, cubani, greci, sudafricani e canadesi. Ho pensato: è bello vedere che, nel posto dove una volta passava il fronte della guerra e i soldati sistemavano le mine, oggi ci sono gruppi che arrivano da paesi diversi, uniscono i tavoli e brindano insieme. Sì, è vero, si lamentano sempre più del cattivo stato delle strade, dicono che sono pericolose, ma ci vogliono bene e sono contenti di venire da noi... E io di fare la mia parte».

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