Borsellino: «Questo paese è vostro... Ve lo dovete riprendere»

Rimini

IMOLA. «Quando finirete di studiare, quando cercherete lavoro, non lasciate questo nostro paese. Non lasciate morire la speranza di Paolo. Perché questo paese è vostro e ve lo dovete riprendere. E io so che ve lo riprenderete».

E’ l’invito che Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo, assassinato nell’attentato di via D’Amelio a Palermo del 19 luglio del 1992, ha rivolto agli studenti dell’istituto professionale “Cassiano da Imola”, al termine dell’incontro con le classi quarte e quinte di ieri mattina.

«Non ho niente da insegnarvi, se non i miei errori e le mie scelte di vita sbagliate», è la premessa, decisamente spiazzante, di Salvatore. Perché, se «la scelta di vita di Paolo è stata nient’altro che una scelta d’amore: rimanere nella sua terra a combattere per il suo paese, a combattere quel terribile cancro, la mafia, che alla fine ha creduto di ucciderlo», Salvatore ha preso una decisione opposta, quella di lasciarsi alle spalle il capoluogo siciliano per trasferirsi al Nord. Una scelta verso cui ha cercato in continuazione di spingere anche suo fratello.

«Come può piacere una città in cui abbiamo visto i morti per strada? In cui ho visto distruggere la bellezza dall’accordo tra mafia e politica, da quelli a cui non interessava nulla della bellezza, ma soltanto il denaro che può accumulare? In cui per trovare un lavoro avrei dovuto chiedere dei favori, e poi quei favori mi avrebbero chiesto di restituirli?», si domanda Salvatore. «Sono fuggito da una città in cui il sindaco diceva che la mafia non esisteva. Ma il sindaco si chiamava Vito Ciancimino! Ma purtroppo la stessa cosa diceva la Chiesa, perché il cardinal Ruffini diceva che la mafia era una invenzione dei rossi, dei comunisti, per denigrare la nostra bella città».

Molti altri, però, hanno scelto di voltare lo sguardo dall’altra parte: «Che cosa ha fatto il nostro Stato?», si chiede ancora Salvatore. «Quelle regioni le ha letteralmente abbandonate al controllo della criminalità organizzata. Perché potessero servire da serbatoio di voti per permettere a chi ci ha governato dalla fine della guerra a oggi di governare il resto del Paese».

Ma da via D’Amelio in poi, tutto è cambiato: «Il giorno dopo, nostra madre ci disse che saremmo dovuti andare dappertutto a cercare di portare a tutti quello che era il sogno di Paolo», ricorda Salvatore. Che da quel momento, cosciente del suo “errore” di lasciare Palermo, ha vissuto «i peggiori dieci anni della mia vita. Ho dovuto fare il Cammino di Santiago, per ritrovare me stesso: 850 chilometri a piedi, che idealmente ho fatto insieme a Paolo, per trovare la forza per ricominciare a parlare»

E anche se, alla fine degli anni Novanta, sembrava che l’indifferenza potesse riprendere il sopravvento, ha scelto di andare avanti perché «ho bisogno di sapere che, quando non avrò più la forza di gridare e di alzare questa agenda rossa, ci sarà qualcuno che continua a chiedere verità e giustizia. Faccio questi incontri per venire a prendere da voi la speranza».

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