A proposito della sentenza su Olga Matei

Rimini

Entrare nel merito di una sentenza è quasi sempre inopportuno e fuorviante se non si conosce nel dettaglio ciò che l’ha motivata. In questo caso, poi, occorre tenere presente i meccanismi premianti del rito abbreviato. Desta stupore, però, nella sentenza riguardante l’omicidio di Olga Matei da parte di Michele Castaldo, avvenuto a Riccione nel 2016, l’uso di alcune parole che credevamo francamente obsolete nel pur algido linguaggio di giudici e periti.

L’assassino, «a causa delle sue poco felici esperienze di vita», sarebbe stato preda di una «soverchiante tempesta emotiva e passionale», che in effetti, «si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio». Una condizione, questa, «idonea a influire sulla misura della responsabilità penale» così come il suo pentimento e la confessione.

Ma dopo anni in cui si è cercato di eliminare dal discorso i termini «raptus», «gelosia» e via discorrendo, perché tendono ad assolvere l’assassino e a colpevolizzare la vittima, ecco che quelle parole giustificative riappaiono addirittura in una sentenza in Corte d’Assise d’appello. Riaprendo ferite mai guarite, il vulnus di una società patriarcale e machista in cui passione e gelosia sono state a lungo (fino al 1981!) attenuanti nel “delitto d’onore”. Chi ha scritto quella sentenza non si è forse reso conto di aver fatto fare al diritto un balzo indietro di quasi quattro decenni, e di averci riportato ai tempi in cui un marito era giustificato a uccidere sua moglie «per motivi passionali». Le donne ammazzate dai loro partner o ex sono indifese di fronte a uomini di cui si fidano. La relazione amorosa, vera o di fantasia, non dovrebbe forse considerarsi una aggravante? Ora ci sarà un ricorso in Cassazione, ma il tragico caso di Olga ci dia almeno l’occasione di fermarci a riflettere su come la società fatichi a liberarsi dai suoi retaggi.

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