Truffa sull’eredità dell’ex dirigente del Ravenna, 58enne a processo
Il prestito per i mezzi di servizio
Due gli episodi contestati. Il primo risale alla seconda metà del 2014 e riguarda il prestito di 7.500 euro, ottenuto da un privato con la scusa di dover acquistare due scooter che sarebbero dovuti servire per l’attività da investigatore privato. Una professione per la quale, tuttavia, il 58enne non aveva alcuna autorizzazione. Nonostante ciò l’uomo si era presentato al potenziale finanziatore - costituitosi parte civile con l’avvocato Massimo Martini -, approcciandosi grazie alla conoscenza con la moglie della vittima. A garanzia del prestito, aveva consegnato un assegno postale non trasferibile di pari importo, ma riconducibile a un conto corrente estinto.
A raccontare le circostanze di quel prestito, ieri in aula è stata sentita la persona offesa, che ha riferito di aver intestato l’assegno direttamente a una concessionaria di moto, ma di non aver mai riavuto la somma prestata. Quel denaro, alla fine, non era nemmeno servito ad acquistare i due scooter del finto investigatore, ma era stato speso per comprare una moto ben più costosa, donata apparentemente a titolo gratuito a una persona “vicina” all’imputato.
L’eredità Animobono
Restano invece da delineare nel corso delle prossime udienze, le circostanze della seconda truffa legata alla presunta eredità lasciata dall’ex vicepresidente del Ravenna Calcio. Era passato circa un annetto dalla prematura scomparsa di Animobono, deceduto in un incidente stradale lungo la statale Adriatica, a Fosso Ghiaia. L’imputato si era presentato alla famiglia, spacciandosi anche in questo caso investigatore privato.
Aveva rivelato di essere a conoscenze di una non meglio precisata quantità di capitali che l’imprenditore romagnolo - all’epoca noto per essere stato nella dirigenza della società giallorossa - aveva investito all’estero. Per rintracciare e recuperare quelle proprietà, però, aveva riferito di doversi servire di un finanziere a lui vicino. Erano così iniziate le richieste di denaro, che si sono protratte prima e dopo il marzo del 2015 raggiungendo la cifra complessiva di circa 6.500 euro.
Cifre tali, quelle contestate nel capo d’imputazione, da fare ricadere in entrambe le accuse anche l’aggravante dell’ingente danno patrimoniale.