La vera rivoluzione di don Oreste

Rimini

Raccontare 50 anni di Comunità Papa Giovanni XXIII in un articolo, seppur lungo, è decisamente un’impresa perché il rischio è quello di lasciare indietro tante cose, però credo che sia importante far capire (ovviamente dal mio punto di vista) qual è stato il filo conduttore della presenza della nostra Comunità prima a Rimini, poi in Italia e adesso in 42 paesi nel mondo. Il 1968 era l’anno della contestazione e del cambiamento; tanti giovani cercavano di cambiare il mondo, ciascuno partendo da un’idea, ciascuno voleva fare la propria rivoluzione. Ma qual era il modo giusto per fare questa rivoluzione?

Per Don Oreste e per decine di giovani che in quegli anni seguiva, la rivoluzione poteva esser fatta creando un modello di società giusta che avesse gli emarginati e i poveri come veri protagonisti e non come persone da escludere.

Ma chi erano i poveri a quei tempi? Sicuramente le persone con handicap, quelle che la cultura di allora aveva lasciato ai margini della società come fossero una vergogna.

Assieme a quei giovani, Don Oreste scelse di farli uscire dagli istituti proponendo dei momenti di aggregazione: vivere insieme il tempo libero, le vacanze, i campeggi, le festività ecc… in modo da far capire alla città che anche loro esistevano. Fino quando un giorno, uno di questi ragazzi con handicap, alla fine di un momento insieme, disse una frase che segnò profondamente non solo il destino di quel ragazzo e di tanti come lui, ma anche della Comunità Papa Giovanni: “Voi adesso tornate a casa vostra e io devo tornare in Istituto, perché non mi portate a casa con voi?”.

Fu questo il momento in cui Don Oreste capì che per fare quella rivoluzione bisognava passare dalla parola assistenza alla parola condivisione: non più fare delle cose insieme a loro, ma vivere assieme a loro.

Per questo nel 1973 nasce a Coriano la prima casa famiglia, un luogo in cui non c’erano operatori o turni di servizio ma veri e propri genitori che 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno vivevano insieme.

Tutto quello che si è sviluppato dopo, le comunità terapeutiche, i centri diurni, le Capanne di Betlemme, le cooperative e le missioni, sono nate con quello spirito e soprattutto dalla lettura di quelle che erano le povertà di quei tempi.

Quel sogno di cambiamento del 68’ è diventato poi una realtà concreta, un modello da seguire e una vera e propria proposta di vita. Una proposta che affondava le radici in quel Vangelo semplice che Don Oreste ci ha sempre insegnato: Gesù, 2000 anni fa, era venuto per riportare all’interno delle mura della città, tutti i poveri e i derelitti che invece erano stati fatti uscire. Un Vangelo che in fondo ci comunica che una società per essere considerata tale deve avere per forza all’interno tutte le sue componenti, perché se una società lascia fuori qualcuno, rimane solo una “accozzaglia di gente” che non ha futuro.

E’ chiaro però che non si poteva solo accogliere il povero ma bisognava anche rimuovere le cause che avevano creato quella povertà e per farlo, non si poteva tacere davanti alle ingiustizie. Era giusto e necessario proporre forme di cambiamento della società. Forse è proprio in questo momento che il rapporto con la città diventa più complicato, perché nascono le occupazioni di via Acquario, le manifestazioni per il diritto al lavoro delle persone con handicap, la battaglia per la difesa dell’“ospedalino dei bambini” e, nota dolente, la difesa del popolo nomade.

Ecco allora che la bella Comunità e il prete simpatico si trasformano in un qualcosa di fastidioso e il rapporto con la città diviene quantomeno complicato. Credo sia fondamentale ricordarci anche i momenti di tensione perché il rischio se no, è quello di far sembrare tutto idilliaco, di raccontarci solo il bello che c’è stato. Ma è proprio grazie a questi momenti di frizione che tutti quanti siamo cresciuti un po’ di più e che abbiamo fatto della nostra città, già ospitale per definizione, un modello di accoglienza ancora più inclusiva.

In fondo domani il Presidente della Repubblica verrà non solo a celebrare una vita ma anche idealmente, a ringraziare questa città per quello che ha regalato all’Italia e ai tanti poveri sparsi per il mondo, dove ogni giorno, grazie alla presenza instancabile di tantissimi giovani e non più giovani, vengono accolti nelle oltre 500 strutture della Comunità.

Una Comunità che anche mediante il successore di Don Oreste, Paolo Ramonda, è riuscita in questi ultimi anni a crescere ulteriormente e ad accettare le nuove sfide che la società ha di fronte.

Quel sogno, di quel prete di San Clemente e di tanti riminesi, oggi è un sogno che parla di Rimini al mondo e che di Rimini racconta la storia della sua gente.

(*) Comunità Papa Giovanni XXIII

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