Ravenna, palpeggiamenti sulla figlia piccola. «La madre non impedì gli abusi»

Ravenna

RAVENNA. Aveva scoperto che il compagno provava piacere nel toccare la figlia nelle parti intime. Nonostante ciò aveva aspettato a denunciare gli abusi sulla minore. Per questo, una volta arrivata la condanna per il compagno a 6 anni e 8 mesi per violenza sessuale, anche lei era stata rinviata a giudizio e poi condannata a sua volta a due anni e quattro mesi.

Ora la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la condanna per la madre della giovane, riducendo la pena a un anno e mezzo.

La sentenza è arrivata dopo il ricorso presentato dal legale della donna, l’avvocato Silvia Cortesi, finalizzato quantomeno a mettere in evidenza la lieve entità del fatto. I giudici hanno anche disposto una provvisionale di 10mila euro, in vista del risarcimento per le parti civili, vale a dire i Servizi sociali, costituitisi tramite l’avvocato Christian Biserni.

Gli abusi

Le inopportune attenzioni del padre nei confronti della bimba si erano protratti dal 2007 al 2012, ma erano emersi solo dopo i racconti della piccola, che aveva trovato il coraggio di riferire gli episodi vissuti solo una volta allontanato il padre da casa. La madre però - come emerso nel corso delle indagini coordinate dal sostituto procuratore Monica Gargiulo - era venuta a conoscenza dei palpeggiamenti dopo aver colto sul fatto l’uomo. Quest’ultimo, 56enne, aveva dapprima negato; poi messo alle strette, aveva confessato di averlo fatto fin da quando la piccola aveva pochi mesi. Difeso dagli avvocati Alessandro Chiarucci e Monica Miserocchi, era stato condannato lo scorso luglio dal gup Janos Barlotti a 6 anni e 8 mesi con rito abbreviato.

Reticenza per motivi religiosi

Con la sentenza era parallelamente partito il procedimento penale nei confronti della madre. Se aveva deciso di mantenere il silenzio - aveva spiegato alle forze dell’ordine al momento della denuncia prima, e davanti al giudice poi -, lo aveva fatto alla luce dell’educazione impartita a sua volta dal proprio padre, aderente a una particolare setta pagana. La donna, in pratica, si era convinta della necessità di mantenere intatte le apparenze della famiglia, in perfetto stile “Mulino bianco”. Pur consapevole del comportamento del compagno, aveva deciso di mantenere un certo distacco e preoccuparsi affinché dall’esterno quel disagio manifestato dalla figlioletta e notato da lei in prima persona, non fosse minimamente percepito. Solo alla luce di una successiva conversione religiosa si era decisa a denunciare tutto, portando tra l’altro all’apertura del fascicolo al Tribunale dei Minori di Bologna.

Già prima della condanna, il padre aveva perso la potestà genitoriale. Erano nel frattempo subentrati i servizi sociali e anche la madre era stata travolta dalle accuse. Ieri è arrivata la conferma, che ha però riconosciuto le attenuanti rimarcate dalla difesa: colpevole, ma “solo” di non aver vigilato attentamente affinché in casa certi orrori non trovassero spazio.

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