Ogni anno il rito si ripete: è il 25 novembre, e la violenza contro le donne diventa improvvisamente d’attualità. Mostre di donne, incontri di donne, la parola alle donne… per un giorno facciamo vedere quanto siamo bravi a contrastare discriminazioni e femminicidi. Poi, domani? Da domani torniamo a promuovere prima gli uomini, a pagarli di più, a eleggerli, a cooptarli. Torniamo a escludere metà e oltre della popolazione mondiale dalle “stanze del potere”. Torniamo a non fare politiche per il sostegno alla maternità. Cancelliamo i permessi di paternità. Non assumiamo le donne fertili. Releghiamo a incarichi minori quelle con figli piccoli. Usiamo ragazzine seminude per vendere materassi e frigoriferi. Reiteriamo pregiudizi misogini su come guidano, comandano e si vestono le donne. Tanto che importa? Oggi siamo tutte/i in piazza contro quei cattivoni dei mariti violenti, che chissà com’è che sono diventati violenti, chissà dove l’hanno imparato, chissà come è venuta fuori ’sta storia che le donne sono inferiori e devono stare buonine a casa, altrimenti sono botte. La colpa è la loro, sono loro i picchiatori, gli assassini, noi siamo solo innocenti testimoni di una strage che non accenna a fermarsi. E quindi giustamente scendiamo in piazza e manifestiamo, facciamo sentire la nostra voce, uomini e donne di buona volontà. Chiediamo pene più severe. Esigiamo leggi sullo stalking. Sosteniamo la nascita di sportelli antiviolenza e di case rifugio. Poi, però, quando alla riunione in ufficio il solito collega maschilista fa la solita battutina sulle donne umorali e inaffidabili, ridiamo anche noi, perché si sa, bisogna fare gruppo. E quando magari un’altra collega dice che «quella ragazzina stuprata se l’è cercata, chissà che cosa ci faceva in giro a quell’ora», non troviamo il coraggio di replicare perché, chissà, magari in fondo ha ragione, a mia figlia che è una brava ragazza non sarebbe mai successo.
E poi in famiglia? Nemmeno rispondiamo a nostro marito che, quando proviamo a commentare un gol di Messi, ci chiude la bocca: «Ma cosa ne capisci tu di calcio?!». Non sarà allora un po’ colpa nostra se l’Emilia-Romagna è una delle regioni dove i tassi di violenza contro le donne sono più alti in Italia? (ed è anche la prima per le denunce di violenze sessuali, 31mila negli ultimi 5 anni). Non sarà un po’ colpa nostra se nello stesso periodo ci sono stati 66 femminicidi? Da dove viene l’humus di violenza e sopraffazione di cui molti uomini – quelli della porta accanto, non mostri mitologici e lontani – sono imbevuti?
Ogni giorno, con ogni nostra azione, con ogni nostra parola, abbiamo la possibilità di fare la cosa giusta: smettendo di ridere alle battute sessiste, usando un linguaggio rispettoso e rappresentativo, boicottando le imprese che usano una immagine degradante della donna, insegnando alle bambine che possono fare le ingegnere meccaniche se vogliono, e ai bambini che indossare una maglia rosa non è disdicevole, che possono piangere e mostrare le loro emozioni senza vergogna, e che stirare non è un lavoro da femmine ma da persone ben educate. Possiamo scegliere di votare una donna la prossima volta che ci capita, perché finché non c’è vera parità non c’è giustizia. Possiamo smettere di valutare il lavoro femminile in base a parametri maschili. Possiamo crescere donne più forti e consapevoli, e uomini più miti e sensibili. Possiamo pian piano scardinare il patriarcato che è dentro di noi. Se solo vogliamo, possiamo.
E adesso tutte/i in piazza, che c’è ancora tanto da fare.