Caso Minguzzi, ci sono 3 indagati: sono i sequestratori di Contarini

Ravenna

RAVENNA. Nel fascicolo che la Procura ha riaperto sul cold case di Pier Paolo Minguzzi, il 20enne ucciso nella primavera del 1987 figurano i nomi di tre persone. Si tratta di Angelo Del Dotto, 55enne di Ascoli Piceno, Orazio Tasca 54enne originario di Gela e residente da tempo in provincia di Pavia e del 62enne Alfredo Tarroni, ovvero i due ex carabinieri di Alfonsine e l’idraulico del paese coinvolti nel luglio di quell’anno nel tentativo di estorsione ai danni di Contarini, imprenditore operante nel campo dell’ortofrutta, stesso settore in cui operava l’azienda della famiglia Minguzzi.

Già condannati nell’ambito di quella vicenda a pene comprese tra i 22 anni e mezzo e i 25 anni per la morte dell’appuntato Sebastiano Vetrano, freddato durante la consegna del denaro nel corso della sparatoria ingaggiata con i carabinieri infedeli, i tre vengono ora accostati nuovamente alla morte di Minguzzi: a loro vengono contestati i reati di sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere.

Nuovo impulso investigativo

Un collegamento, quello tra i due episodi, che come riportano le cronache del tempo venne fatto anche all’epoca ma che non fu mai provato. Tanto che, con l’inchiesta finita a un punto morto, il gip archiviò il caso nel 1996 proprio perché i presunti responsabili restarono ignoti. Ora, a 31 anni di distanza, la possibile svolta che potrebbe fare luce su un mistero dai tanti punti oscuri rimasto insoluto.

Massimo il riserbo sulle indagini, affidate a Squadra mobile e polizia Scientifica con il coordinamento del procuratore capo Alessandro Mancini e del sostituto procuratore Marilù Gattelli, ma di fronte alla prospettata riesumazione della salma del 20enne studente universitario di agraria che stava svolgendo il servizio di leva come carabiniere ausiliario a Mesola, nel Ferrarese, è lecito ipotizzare che tutti gli elementi raccolti nell’ambito dell’inchiesta saranno rivisti e rianalizzati alla luce dei progressi scientifici in ambito investigativo. In particolare eventuali tracce del dna degli aggressori che potrebbero essere isolate sui resti del giovane il cui corpo riaffiorò una decina di giorni dopo la scomparsa nelle acque del Po, ma anche altri dettagli che potrebbero mettere in relazione i due casi.

D’altronde gli inquirenti individuarono sin da subito le diverse analogie tra il sequestro Minguzzi e l’estorsione a Contarini ma l’inchiesta sulla morte del militare di leva non fece passi in avanti, arenandosi. Nei mesi scorsi è invece ripartita con un nuovo impulso anche in seguito all’appello lanciato nel 2016 dalla sorella di Pier Paolo Minguzzi che chiese di riaprire le indagini. Monito che non rimase inascoltato. Nei giorni immediatamente seguenti, infatti, alcuni cittadini diedero il proprio contributo alla ricerca di verità con le prime segnalazioni. E si è tornato a valutare tutto sotto una nuova chiave di lettura.

I fatti

Minguzzi sparì nel nulla il giorno di Pasquetta durante una breve licenza ottenuta in concomitanza del ponte festivo. Prima del sequestro era stato con la fidanzata a Marina Romea e dal mare la coppia si era poi spostata in serata a Imola per giocare a bowling. Dopo averla riaccompagnata, del giovane si sono perse le tracce. Non vedendolo rincasare, la madre aveva allertato i carabinieri e qualche ora dopo la sua Golf rossa venne trovata parcheggiata in centro con le chiavi nel cruscotto. Qualche ora più tardi ai parenti giunse la prima telefonata dei rapitori e la richiesta del riscatto, 300 milioni di lire. Richiesta reiterata nei giorni a seguire senza mai fornire ai familiari, che lo avevano chiesto, la prova che Minguzzi fosse ancora vivo. Venne individuata la cabina telefonica di Lido delle Nazioni da cui il telefonista chiamò i parenti, ma mai chi prese in mano quella cornetta. La speranza che Minguzzi fosse ancora in vita si spense il primo maggio quando il corpo venne ritrovato da un canoista impegnato in una gara. Il cadavere affiorava parzialmente dall’acqua forse per il cedimento di una delle corde della zavorra a cui era stato assicurato. In avanzato stato di decomposizione, era legato a un’inferriata con la corda attorno al collo che, stringendosi, lo portò alla morte. Fu anche individuato il casolare, una stalla abbandonata nelle campagne di Vaccolino, tra Comacchio e Lagosanto, da cui fu tolta la sbarra di metallo. La notizia del ritrovamento non venne diffusa subito; gli inquirenti speravano che i sequestratori si facessero di nuovo vivi. Ma il telefono non squillò mai più.

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