Addio a Paolo Villaggio: a Rimini rinacque due volte

Rimini

RIMINI. Nacque a Genova ma rinacque almeno un paio di volte a Rimini. Come padre e come attore. L’incontro con Vincenzo Muccioli e quello con Federico Fellini. Il ritorno alla vita del figlio Pierfrancesco detto Pierino e il David di Donatello. La luce in fondo al tunnel dell’eroina e “La voce della luna”. Poi sì, la storia dice che c’è anche “Rimini Rimini” a legare Paolo Villaggio alla Riviera, una delle tante, forse troppe, licenze concesse a un talento cristallino. Rimini è stata “molto umana” con il comico scomparso alle sei di ieri mattina a Roma all’età di 84 anni. Di questa provincia si era innamorato. «Mangiava e rideva, rideva e mangiava», racconta commossa Serena Grandi, partner in “Rimini Rimini” e compagna di tante «giornate divertenti, piene di gioia e di vita». Il figlio a Sanpa Suo malgrado era salito sul colle di San Patrignano, a Coriano, sul finire degli anni Settanta. Una vicenda come tante la sua. Un figlio drogato dall’età di 17 anni che non riesce a smettere. Lo arrestano, il padre lo porta nelle migliori cliniche del mondo ma lui senza un ago nel braccio non riesce a stare. L’incontro con Vincenzo Muccioli è la prima rinascita, dalla disperazione. Pierfrancesco Villaggio grazie ai metodi del fondatore di Sanpa si disintossica e il padre sfila tra i testimoni in tribunale a Rimini al famoso “processo sulle catene”. «Muccioli è un santo», dice al giudice. La Riviera trash “Rimini Rimini” arriva nel 1987 e s’innesta nell’epopea fantozziana, già in fase decisamente calante, tra “Superfantozzi” e “Fantozzi va in pensione”. Artisticamente è forse il momento più basso e riascoltando i dialoghi tra Gildo Morelli, pretore di “Rimini Rimini”, e Lola, la provocante Serena Grandi, si fatica a comprendere come quel film possa avere incassato quasi tre miliardi di lire. Ma in fondo erano gli anni Ottanta e quel tipo di comicità, la stessa di “Roba da ricchi”, sempre con Villaggio e la Grandi, sempre lui goffo e lei audace, bastava e avanzava per regalare qualche ora di leggerezza. Villaggio e Fellini La rinascita artistica arriva subito dopo “Ho vinto la lotteria di Capodanno”, l’anno è il 1989. Il giudizio di Federico Fellini è tagliente, provocatorio, destabilizzante. «Un uomo evidentemente deciso a rovinarsi con le sue mani e siccome è bravo vedrete che ci riuscirà a furia di partecipare a tutte le scemenze televisive possibili», dice di lui il Maestro riminese. Dal loro incontro nasce un film di nicchia, quasi una delusione per chi compra il biglietto ed entra in sala convinto di ridere: “La voce della luna”. Ma è la consacrazione. È l’entrata nella storia del cinema che conta. Ne prende atto quasi con rabbia e frustrazione alzando al cielo il David di Donatello, nel 1990, per il film di Fellini, e il Leone d’oro alla carriera, due anni dopo. Con grande ironia si rassegna all’idea che senza due riminesi la sua vita non sarebbe stata la stessa. Suo figlio probabilmente sarebbe morto e lui sarebbe stato ricordato come un discreto protagonista ma del cinema di basso livello. Passerà invece alla storia come un personaggio straordinariamente umano, talmente tanto ricco da ammettere spudoratamente di avere invidiato l’amico Fabrizio De André nel giorno del suo funerale. «Temo che non ne avrò uno con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti». Potrà giudicare domani pomeriggio guardando da lassù, gettando lo sguardo sulla Casa del cinema di Roma, vestendo i panni, questa volta definitivi, di “Fantozzi in paradiso”.

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