La moglie "detective" «Mio marito in cella e il sosia fa le rapine»

Rimini

RIMINI. «Quando ho visto il telegiornale sono saltata dalla sedia: il rapinatore del filmato sembrava proprio mio marito, identico, ma lui non poteva essere perché si trova in carcere, guarda caso accusato di un colpo commesso dal suo sosia, che evidentemente era ancora libero. Quelle immagini sono la prova della sua innocenza, spero che qualcuno voglia prenderla in considerazione». La giovane moglie di Thomas Prina, tutt’ora l’unico indagato per il clamoroso assalto del 28 agosto 2014 all’orologeria “Luxury Watches” di via Garibaldi, in pieno centro storico a Rimini, ha visto e rivisto il video della rapina milanese, trasmessa in tv e rintracciabile sul web, ed è convinta che il bandito inquadrato dalla videocamera di sorveglianza sia lo stesso che, a causa della straordinaria somiglianza fisica, ha messo indirettamente nei guai il marito. Sempre sulla base delle immagini del colpo riminese, infatti, i carabinieri si erano convinti di aver dato un nome e un volto ad almeno uno dei quattro banditi della violenta irruzione riminese. Thomas stesso, quando fu arrestato, si sorprese davanti ai fotogrammi della rapina. Quasi due gocce d’acqua. Ricordate il film Jhonny Stecchino, con Benigni che interpretava sia il candido Dante sia il mafioso (celebre la battuta: “Non me somiglia pe niente”)? Beh, qui c’è poco da ridere, perché nonostante la carenza di indizi, le accuse nei confronti di Prina, un nomade sinti residente nel campo di via Islanda, vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, non sono state ancora archiviate, come conferma l’avvocato difensore Ninfa Renzini. Nei suoi confronti però, a parte l’aspetto simile al responsabile, non sono emersi altri elementi nel corso delle indagini. Anzi.  Nel frattempo infatti una perizia disposta dal giudice per le indagini preliminari Fiorella Casadei e affidata ai Ris di Parma ha smontato “scientificamente” le convinzioni dell’accusa. Lo studio antropometrico dell’immagine ha dimostrato, infatti, che le fattezze del rapinatore, misurate al computer, non coincidono perfettamente con quelle del sospettato. «Non è lui il colpevole: perché non lo fanno tornare a casa?». Quello della moglie, una 27enne sinti con quattro figli e un quinto in arrivo, non è solo un appello, ma anche uno spunto investigativo. “La banda di Milano potrebbe essere la stessa che fece la rapina a Rimini, il bandito sembra proprio lo stesso, anche se poi saranno i carabinieri a dover dire l’ultima parola”. La caccia al “sosia”, vero responsabile dell’assalto, al Luxury, e ai suoi complici è più aperta che mai. I rapinatori portarono via orologi di pregio per un valore di circa 53mila euro («Se Thomas avesse portato a casa tutti quei soldi, me ne sarei accorta, credetemi»). Quel pomeriggio, attorno alle 16.20, tra decine di passanti che affollavano il centro, fecero irruzione nel negozio. Il titolare sorprese i rapinatori nell’oreficeria (avevano preso per i capelli e minacciato la commessa) e istintivamente cercò di intrappolarli, chiudendoli dentro e aggrappandosi con ogni forza alla maniglia d’ingresso: i banditi, però, sfondarono a colpi di mazza la porta blindata. La dipendente della gioielleria di Rimini disse che tra loro parlavano un idioma dell’Est che non era il russo e, guarda caso, i rapinatori di Milano hanno scambiato tra loro delle frasi in lingua serba. Ed erano stati altrettanto determinati e violenti. La moglie “detective” la sua parte l’ha fatta, ora spetta agli investigatori mettere definitivamente da parte la vecchia pista, un vicolo cieco, e battere altre strade capaci di dare un nome al “sosia” di Thomas.

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