Stefano Vitali: l'inferno esiste l'ho trovato in Burundi

Rimini

RIMINI. Da quando ho smesso i panni di presidente della Provincia di Rimini sono tornato a pieno regime all’interno della comunità Papa Giovanni XXIII, più precisamente nella sua Ong “Condivisione fra i popoli” che ha il compito di gestire e coordinare i progetti nei Paesi in via di sviluppo. Da allora ne ho visitati quindici in Africa, Asia, America Latina ed Europa. Ho toccato con mano cosa significhi la parola “povertà”, ho visto persone disperate perché non sapevano cosa dare da mangiare ai propri figli, ho visto persone vivere in posti per noi inimmaginabili. Ho sentito odori talmente nauseanti che porto con me a distanza di tanto tempo. Ho però conosciuto anche cosa significhino dignità, semplicità nell’affrontare la vita e cosa significhi condividere con gli altri il poco che si ha. Sono appena tornato dal Burundi, paese in cui ero già stato nel 2014. Un luogo dai paesaggi meravigliosi dominati dal verde intenso che, in contrasto con il rosso della terra africana, rende tutto ancora più spettacolare. La Papa Giovanni XXIII è presente nella capitale Bujumbura dal 2013, anno in cui Digne e don Pascal hanno aperto una casa famiglia per l’accoglienza di bambini orfani o in situazione di grave difficoltà. Insieme a loro oggi vivono 12 minori che hanno finalmente trovato una famiglia e la prospettiva di un futuro diverso e migliore. Oltre alla casa famiglia, in tutti questi anni i volontari della comunità hanno incontrato tante povertà estreme, ascoltando i bisogni dei più poveri fra i poveri. Proprio come don Oreste insegnava, spronando a legarsi alle situazioni più difficili, quelle che di solito nessuno segue, quelle dimenticate. In Burundi ho potuto toccare con mano due di queste situazioni, che mi rimarranno nella memoria e nel cuore per sempre. A Gitaramuka, un villaggio a 60 chilometri dalla capitale, ho incontrato una tribù di pigmei. A dispetto del nome, che evoca sentimenti positivi, i pigmei sono considerati peggio degli animali e costretti a vivere lontano da tutti, senza alcun tipo di diritto. Vivono in situazioni estreme, in piccole capanne di fango e pietre. In passato, per vivere, facevano piccoli lavori artigianali da vendere. La globalizzazione li ha però privati di qualsiasi tipo di mercato e quindi dell’unica fonte di sostentamento. Poche volte, nei miei viaggi, ho visto situazioni di miseria così estrema. I bambini, tutti, portano evidenti segni di malnutrizione, primo tra tutti il gonfiore anomalo della pancia, e sono privati dell’accesso scolastico. Nonostante questo, il clima che si respira è di grande dignità, di festa. Ti accolgono con l’unica cosa che possono offrire: il sorriso. Poi, dopo un primo momento di festa, raccontano le loro storie. Terribili. Violenza, emarginazione (sono meno dell’uno per cento della popolazione), morte. Quanti di quei bambini non riusciranno a superare i cinque anni d’età! Sono racconti rassegnati, di chi non ha un briciolo di speranza, di chi pensa che il futuro sia segnato. Ma noi siamo lì, insieme a loro, per essere quella speranza, partendo da piccole cose. Nelle prossime settimane forniremo loro un primo aiuto nutrizionale e iscriveremo circa 50 bambini a scuola. Un primo passo, che servirà però a instaurare una relazione e un rapporto di fiducia. Il nostro sogno è quello di portarli all’autosufficienza, magari cominciando tra qualche mese corsi di formazione per insegnare agli adulti nuovi mestieri. Tornando a Bujumbura, i volontari mi hanno portato in una discarica senza spiegarmi nulla prima, dicendomi solo “adesso vedrai”. Certo che ho visto. Ho visto distese di bambini, ragazzi, donne alla ricerca disperata di cibo scavando a mani nude nell’immondizia. Ho visto persone litigare per pochi avanzi di cibo, contendersi pezzi di plastica da rivendere in cambio di pochi spiccioli. Ho visto piedi e mani tagliati dai vetri sparsi in questo mare maleodorante. Ho visto occhi che non riescono più a guardarti, insomma ho visto ancora una volta l’inferno. Ho scoperto che una parte di quei bambini è orfana, ho scoperto che altri sono stati allontanati da casa perché la famiglia è così numerosa da non poter farsi carico di tutti. Ho scoperto che molti sono in strada perché il padre è scappato e la mamma ha un nuovo compagno che non vuole sapere nulla dei figli nati dalla precedente relazione. Una trentina di loro sono poi venuti nella nostra struttura di accoglienza per mangiare qualcosa e fare un po’ di festa insieme. Parlando con loro il desiderio che li accomuna tutti è quello di tornare a scuola. Mi rimarrà sempre impresso il sorriso di uno di loro mentre mi raccontava il suo sogno nel cassetto: diventare pilota di aerei. E noi ce la metteremo tutta per realizzare i loro sogni. Tornando a casa lo stesso pensiero di sempre: quanti errori la cooperazione internazionale ha fatto nell’essersi limitata troppo spesso a portare cibo senza avere quasi mai cercato di creare opportunità di sviluppo. Uno sviluppo necessario perché popolazioni come questa prima o poi spingeranno sempre di più per arrivare nei paesi nei quali pensano ci possano essere opportunità di sopravvivenza. Nessun muro riuscirà mai a fermare l’avanzata di milioni di persone affamate e disperate. Se la politica si occupasse meno di slogan populisti solo per accaparrarsi un pugno di voti e pensasse di più alla vera cooperazione internazionale, non assisteremmo tutti i giorni a sbarchi di disperati che lasciano il proprio paese per non morire di fame.

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