L'avventura indimenticabile di Guarise

Rimini

RIMINI. L’appuntamento è per le 18.30 italiane. Le 21.30 di San Pietroburgo. Matteo Guarise è appena rientrato da Sochi. Il telefono squilla. Una, due, tre volte finché risponde una voce femminile che in russo parla per circa un minuto. Poi cade la linea. Secondo tentativo. Uno squillo, un secondo e finalmente… “pronto, sono Matteo”. La voce è squillante. Calda. Ma soprattutto gioiosa. «Scusa, ma stavo disfando le valigie». Il tempo di sedersi, di sistemare il suo ginocchio a pezzi e poi il primo riminese a prendere parte a un’Olimpiade invernale inizia a raccontare la sua avventura a Cinque Cerchi. «Spero di aver tenuto alto il nome di Rimini, mi auguro davvero che i riminesi siano orgogliosi di me, da parte mia ci ho messo tutto l’impegno possibile anche se questo ginocchio mi ha giocato un brutto scherzo».

Tutto inizia all’indomani dell’ottimo ottavo posto agli Europei di Budapest. “Torniamo a San Pietroburgo con Nicole (Della Monica, ndr) carichi a molla. Inizio a lavorare fisicamente facendo carichi su carichi finchè il sabato mattina sento un gran male, ma non ci do molto peso. La domenica mi riposo e il lunedì scendo in pista. Giusto il tempo di riscaldarmi e al primo vero carico il ginocchio destro fa crac. Un dolore assurdo. Andiamo subito a fare gli esami e l’esito è un pugno nello stomaco: distorsione del ginocchio destro con interessamento dei legamenti e menisco lesionato. Lì per lì mi sono sentito il mondo cadere addosso. Alle Olimpiadi mancavano meno di dieci giorni. Operarmi non era possibile perché non sarei mai riuscito a tornare per i Giochi. Alla sera facciamo una riunione con allenatori, preparatori tecnici e staff medico. Mi dicono cosa voglio fare. Non ci ho pensato un attimo: voglio andare a Sochi».

Il biglietto con la storia, Matteo, non lo molla. Però il ginocchio gli fa un male cane. «Per una settimana ho camminato con le stampelle. Poi, nei giorni imminenti la partenza le ho lasciate da parte e abbiamo deciso di non raccontare a nessuno del mio infortunio. E così siamo sbarcati a Sochi facendo finta di nulla, ma la verità è che io e Nicole non ci siamo mai allenati fino al giorno del programma corto».

La voce scompare per un attimo. Poi torna e racconta di quell’incredibile emozione. «Prima di entrare in pista avevo la testa piena di pensieri, mi stavo concentrando su tutto tranne che sul pattinare. E, infatti, pronti via finisco come un patacca per terra. Ma quella caduta è stata provvidenziale perché mi ha resettato completamente la testa. È come se mi fossi liberato di un peso. Mi son detto: Matteo, oramai è andata, divertiti e goditi la tua Olimpiade. Alla fine è venuto fuori un gran bell’esercizio che ci ha regalato il passaggio alla finale che poi era il nostro vero obiettivo».

Una finale che Matteo ha rischiato di non pattinare. «Quando la Fontana (la commentatrice tecnica di Sky ed ex olimpionica a Torino 2006, ndr) ha saputo del mio infortunio mi ha chiesto come facessi a pattinare e so che anche in telecronaca ha parlato di miracolo. Le ho risposto che era l’orgoglio e la consapevolezza di avere una città che tifava per me. Però dopo il corto ho iniziato ad avere un gran male e neppure le infiltrazioni mi hanno fatto nulla. E il risultato, purtroppo, si è visto: al triplo sono saltato fuori asse perché il menisco mi era uscito, cosa che in quei minuti sarà accaduta ancora quattro o cinque volte. Di tutto l’esercizio avrò pattinato sì e no venti secondi. Il problema principale, però, è stato nei lanci: quando sollevi la partner devi appoggiarti sulle gambe, io, invece, non potevo e ho fatto tutto di schiena lanciando malissimo Nicole che, infatti, poverina è caduta due volte. Ho stretto i denti, mi son detto: e se un’occasione così non ti ricapitasse più? Quindi ho continuato e quando è finita la musica ero distrutto, ma felicissimo perché sapevo che più di così non potevo fare».

Nicole lo chiama chiedendogli cosa vuole da mangiare. «Scusa, ma qui è ora di cena». Poi Matteo apre l’album dei ricordi più intensi di questa avventura a Cinque Cerchi. «Due in modo particolare. Il primo è stata la sfilata: un’emozione che non si può descrivere a parole. Sei lì, con milioni di persone che sai che ti guardano e avanzi dietro quella bandiera che ti fa sentire un senso di Patria che mai avevo provato prima. Credo che sia una cosa che solo chi fa sport può capire: il Tricolore in quel momento è una seconda pelle che ti senti appiccicata addosso. Poi non scorderò mai il giorno in cui sono rientrato nella nostra casa e ho visto davanti la porta d’ingresso sei macchine con i finestrini neri. Deve essere successo qualcosa, mi è venuto da pensare. Mi sono guardato intorno e poi sono entrato a casa Mare (l’altra casa degli Azzurri era la Montagna dove soggiornavano gli sciatori, ndr) e ho visto una persona e ho detto: ma questo io lo conosco. Sono passati cinque, dieci secondi e ho capito che si trattava del nostro presidente del Consiglio, Enrico Letta».

Ex Presidente. «Come ex? - chiede Matteo - Ma cosa è successo?».

Dopo avergli spiegato della staffetta con Renzi, il 25enne riminese parla del suo futuro.

«A marzo ci sarebbero i Mondiali, ma difficilmente li farò. Lunedì torno in Italia, a Milano, dove mi aspettano i medici della Federazione e con loro vedremo il da farsi. Al 90% mi opererò e visto che il punteggio mio e di Nicole non potrà cambiare di molto, credo che non correrò il rischio di fare un recupero troppo veloce. Magari ne approfitto per fare un salto anche a Rimini a salutare la mia tribù».

 

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