"Le morti? Sono molto sfortunata"

Rimini

RAVENNA. Le foto choc con la nonnina appena morta le definisce trasgressive, quelle battute macabre in corsia su come uccidere con il potassio le liquida come “autoironiche”, e quelle statistiche inquietanti che vedono il numero dei morti raddoppiare con la sua presenza in ospedale le cataloga semplicemente alla voce “sfortuna”. Dice proprio così Daniela Poggiali e lo ripete al pm Angela Scorza che a, un certo punto, le chiede esplicitamente come si spiegasse il fatto che con lei in servizio si morisse così tanto: «Si vede che sono sfortunata, non so». E in aula si alza un brusio. E’ un misto di soffocata ilarità, ma anche di indignazione. Soprattutto quella dei familiari di Rosa Calderoni che ascoltano a pochi metri di distanza, ma anche quella dei tanti cittadini che il “giorno dell’infermiera” non se lo sono voluti perdere e riempiono l’aula di corte d’Assise, ognuno col suo personale carico di aspettative e curiosità.
Forse non sarà stata l’udienza decisiva ai fini della sentenza (per quella bisognerà attendere lo scontro tra periti in aula) ma di sicuro quella di ieri era l’udienza più attesa. Per la prima volta, infatti, dopo tanti mesi si è sentita in aula la voce dell’infermiera accusata di aver ucciso l’8 aprile del 2014 all’ospedale di Lugo, con una dose massiccia di potassio, Rosa Calderoni, 78enne di Russi. E’ una voce monocorde, senza sussulti. Perché anche questa volta Daniela Poggiali stupisce. Chi si aspettava un atteggiamento aggressivo è rimasto deluso. Più che la personalità straripante e carismatica descritta da colleghe e medici, emerge infatti il profilo di donna incredibilmente fredda, incapace di emozionarsi e di emozionare. Una donna che finisce per “subire” l’interrogatorio serrato del pm Scorza, ma che allo stesso tempo non ha mai dato la sensazione di soccombere emotivamente.
Chiaro l’intento dell’accusa: completare in aula non un semplice identikit di una presunta “infermiera killer”, ma un vero e proprio affresco di una personalità più complessa. E allora, proprio come negli affreschi, si cura lo sfondo e si parte dai presunti episodi di furto in ospedale e dal suo modo di lavorare un po’ fuori dalle regole; tra fiale di potassio che spariscono e battute infelici nei corridoi. Si citano testimoni e date precise. Poi si parla dei purganti e degli ansiolitici dati ai pazienti, delle morti sospette e di quelle “annunciate” o di quando una figlia di una deceduta la chiamò “assassina” nello sconcerto generale, pochi istanti dopo aver visto morire improvvisamente la madre. Ad accusarla ci sono decine di persone tra colleghe, medici, pazienti, badanti. Ma per Daniela o hanno visto male, o hanno capito male. Tutti.
E il risultato è che la Poggiali risponde sempre, ma non convince mai.
«E’ vero che chiamava il coordinatore degli infermieri finocchio?» Chiede, ad esempio, la Scorza. «No, forse l’ho chiamato simpaticamente checca». Ribatte lei.
«E’ vero che stava frugando dentro una borsa? » «No, la stavo solo raccogliendo». «E’ vero che portava via medicinali? No, erano solo campioncini». E via dicendo.
Poi si tocca anche il capitolo foto choc. Qui negare è impossibile. E allora Daniela prova a contestualizzare. «Le ha volute scattare la mia collega e le ho cancellate subito». Le foto vengono mostrate in forma integrale, senza oscurare il volto della povera anziana. In aula cala il gelo. Il pm Scorza chiede alla Poggiali di voltarsi e guardarle. Daniela non vuole. Il pm insiste. La Poggiali sembra vergognarsene. Sono passate quasi due ore ed è la sua prima evidente emozione. Resterà anche l’unica. Ma lei è così. E lo ammette chiaramente quando il pm gli “contesta” il fatto di essere rimasta impassibile anche quando gli è stato detto che era indagata per omicidio. «Sono fatta così - dice - magari non sembra, ma dentro ho sofferto». Si passa poi a una meticolosa ricostruzione delle ultime ore di vita della Calderoni. La Scorza prende in mano anche una flebo simile a quella usata quella mattina. E’ il momento più delicato dell’udienza, perché è lì che si gioca l’ergastolo. Daniela resta fredda e non si scompone. La tesi dell’accusa è nota: dosi mortali di potassio sono state rilevate solo nel deflussore della flebo perché - secondo il pm - l’infermiera sapeva che iniettandolo lì sarebbe andato direttamente in circolo uccidendo subito. Ecco perché non c’è potassio nella “bottiglietta” della flebo. Mentre manca nell’ago infilato in vena perché quello buttato nel cestino non era quello della Calderoni. L’infermiera, infatti, secondo l’accusa lo avrebbe tolto proprio per depistare eventuali controlli. Tanto che i Ris troveranno tracce di Dna maschile. «Io non so come sia stato possibile tutto questo» si limita a dire la Poggiali. Ma poco dopo il suo difensore, l’avvocato Dalla Valle, farà notare un’altra cosa: non è stata la Poggiali a scrivere a penna sulla flebo il nome della Calderoni, insinuando il dubbio di una presenza diversa dietro quella morte. Le ultime due domande sono invece del giudice Corrado Schiaretti: «Lei ha mai rubato in ospedale?». «No». «Lei ha ucciso Rosa Calderoni?» «No». Poche parole e zero emozioni. Fino alla fine. Venerdì tocca ai periti. E sarà davvero il giorno della verità.

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