Il Duomo gremito per l'addio a don Dario Ciani

Rimini

FORLÌ. In tantissimi ieri mattina hanno voluto dimostrare il legame stretto, non solo spirituale, che don Dario Ciani aveva costruito in 46 anni di servizio sacerdotale. Semplicemente “Dario” per i molti visi commossi che fin dalle 9 hanno gremito la Cattedrale di Forlì, ognuno dei presenti custodendo nel cuore il proprio prezioso ricordo del religioso originario di Tredozio, “padre” della comunità di Sadurano.

Un ultimo saluto dove l’emozione, responsabile anche di un malore che ha reso necessario all’uscita dalla chiesa l’intervento del 118, si è sciolta spesso in fragorosi applausi alla memoria dell’uomo, scomparso domenica all’età di 70 anni, che non ha mai voltato le spalle a chi si rivolgeva a lui chiedendo accoglienza, spirituale e umana.

Il vescovo. Questo ha fatto sì che attorno alle spoglie mortali del sacerdote “degli ultimi” si sia stretta buona parte della cittadinanza: la giunta, assente il sindaco Davide Drei che ha però portato una parola di vicinanza attraverso il vescovo monsignor Lino Pizzi; la Polizia penitenziaria che ha “vigilato” il feretro col picchetto d’onore per oltre un’ora e mezza e una grande folla, vigile e sofferente. «Il nostro fratello era malato - ha esordito monsignor Pizzi, circondato dalla schiera di sacerdoti della Diocesi di Forlì-Bertinoro - ma nessuno si aspettava di ricevere questa notizia. Lui stesso si era preparato per celebrare la messa domenicale. Siamo attoniti, di certo possiamo dire che è stato un sacerdote che si è sporcato le mani, non ha chiuso gli occhi di fronte alle marginalità e alla sofferenza. Forse anche per questo è stato a tratti criticato e non compreso».

Imprenditore. Don Ciani ha avuto il coraggio, non scontato, di mettere al centro «le persone scartate dalla società», un’eredità inestimabile ricostruita dalle parole di Franco Marzocchi, ora presidente di Livia Tellus, che lo conobbe quando fu parroco di Bussecchio; la direttrice del carcere di Forlì, Palma Mercurio, e il presidente dell’associazione “Amici di Sadurano”, Alberto Bravi.

«Già negli anni ’70 aveva una grande visione - ricorda Marzocchi - quella della giustizia sociale. Scoprimmo che una cooperativa era un modo per permettere a una comunità di sostenersi. Fu prete, imprenditore e anticipatore dei tempi». In carcere fu cappellano dal 1990, incarico che seguì con passione e che lasciò a causa della malattia nel 2013.

Il colle rinato. Ma il suo “primo amore” restò sempre Sadurano, la comunità fondata sui colli forlivesi negli anni Ottanta, divenuta cooperativa nel ’91 e azienda dove promuovere il reinserimento di ex tossicodipendenti, carcerati e malati di mente. «Era convinto che senza lavoro, una casa e dei vestiti, fosse difficile occuparsi della dimensione spirituale. Per questo, per aiutare, non si limitava a pregare - è intervenuto tra le lacrime Bravi -. Ultimamente soffriva non solo per il fisico, ma perché vedeva sgretolarsi quello che aveva costruito. Sadurano non ha retto l’impatto con la crisi. Questo è accaduto anche ad altre realtà, ma qui si recupera la gente col lavoro, non con farmaci e nullafacenza. Le istituzioni dovrebbero rendersene conto». Uno scroscio di applausi ha inondato la chiesa e scortato l’ultimo tragitto del feretro, all’uscita dalla chiesa, fino alla tumulazione, nel cimitero di San Varano.

Elisa Gianardi

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