Pantani? Per il perito volle farla finita

Rimini

RIMINI. Marco Pantani, quel tragico San Valentino di undici anni fa, volle farla finita. Già intossicato dall’abuso di un antidepressivo, poco prima di morire avrebbe svuotato un altro flacone di farmaci e sarebbe deceduto comunque, indipendentemente dalla forte assunzione di cocaina. E’ quanto «assai verosimilmente» ritiene, nella relazione conclusiva, il consulente tossicologico Franco Tagliaro, incaricato dalla procura di Rimini di fare chiarezza sulle cause del decesso, dopo averlo autorizzato a ripetere gli esami sui campioni di sangue e di urina conservati in laboratorio.

Lo specialista veronese, dalla concentrazione dei metaboliti, evince - come già anticipato nelle scorse settimane - come principale causa del decesso un sovradosaggio di antidepressivi, ma è anche in grado di elaborare scientificamente «un’ipotesi motivata sulle modalità della morte» che farà discutere. «L’evidenza dell’assunzione di quantità importanti» di uno dei farmaci «poco prima della morte» - scrive il professor Tagliaro - rende «assai verosimile, a nostro avviso una volontà autosoppressiva di Marco Pantani nell’assunzione dei farmaci, pur non potendosi escludere del tutto un clamoroso errore in un incongruo tentativo di automedicazione».

Una conclusione coraggiosa, quanto ardita: da quando, infatti, i “vetrini” di un laboratorio sono in grado di rivelare i segreti della mente umana e fino a che punto può autodeterminarsi una persona in preda a un delirio da cocaina? Sia la vecchia inchiesta, sia la consulenza medica allegato all’esposto della famiglia Pantani parlavano di overdose di droga, escludendo il suicidio da farmaci. In ogni caso, la relazione dà conferma del percorso autodistruttivo del Pirata, dopo che la teoria dell’omicidio era già stata spazzata via sulla base delle nuove testimonianze e delle deduzioni logiche: la procura sta predisponendo la richiesta di archiviazione. Secondo la ricostruzione medico-legale della tragedia Pantani non fu aggredito e sarebbe morto, indipendentemente dalla droga, per l’assunzione in dosi eccessive di un farmaco contenente trimipramina. Tagliaro relega «la peraltro elevata concentrazione di cocaina nel sangue a una circostanza sostanzialmente occasionale». «La morte sarebbe intervenuta verosimilmente - mette nero su bianco il consulente - anche in assenza di cocaina» anche se - continua - «bisogna ammettere che l’assunzione di cocaina in quantità importantissime ha verosimilmente avuto un ruolo devastante nel manifestarsi e nello svilupparsi della sindrome depressiva e nella compliance alla terapia farmacologica di Pantani».

Pantani nella stanza del residence Le Rose aveva con sé una busta piena di farmaci. Dell’antidepressivo considerato letale una doppia dose: in gocce (vuoto per trequarti) e in compresse (ne mancavano trenta delle cinquanta complessive). Mezzi vuoti erano anche i blister degli altri medicinali. Compresa la manciata di pillole prese tutte assieme, secondo Tagliaro, poco prima della crisi cardiaca fatale. Sulle righe finali della relazione potrebbe, infine, concentrarsi l’attenzione dell’avvocato della famiglia, Antonio De Rensis: si considera l’adeguatezza del trattamento medico. Tagliaro ritiene la trimipramina indicata per contrastare la depressione, corelata o meno alla cocaina, ma aggiunge che «i pazienti devono essere attentamente controllati essendo presente il rischio di suicidio». Per il tossicologo «i pazienti (o chi si prende cura di loro) dovrebbero essere avvertiti della necessità di monitorare e di riportare immediatamente al proprio medico l’insorgenza di comportamento o pensieri suicidari». Ogni eventuale, e probabilmente indimostrabile “colpa” medica sarebbe ormai prescritta per la legge. Non ci sono colpevoli, ma forse nessuno è innocente: Marco Pantani si sentiva tradito: si lasciò tutto alle spalle, per morire come una rockstar.

 

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