«Accuse che fanno rabbrividire. Assolvete i genitori di Rosita»

Forlì

FORLI'. Oltre sei ore di parole per chiedere l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Con la voce rotta dall’emozione per una vicenda che lo ha segnato, come ha più volte ammesso lui stesso, mentre un metro dietro a lui i suoi assistiti piangono. Ieri è toccato all’avvocato Marco Martines, che difende Roberto Raffoni e Rosita Cenni, parlare nel processo per il suicidio della 16enne Rosita Raffoni, morta il 17 giugno 2014 dopo essersi lanciata dal tetto del Liceo Classico. I genitori della ragazza sono imputati per maltrattamenti fino alla morte e, solo il padre, per istigazione al suicidio. Un finale carico di tensione perché in quei minuti, intorno alle 18, l’avvocato ha dovuto ripercorrere quel fatale ultimo giorno di vita della ragazza. La scoperta del corpo della giovane, la consapevolezza di Roberto Raffoni che quel cadavere a terra era quello della figlia, il ricordo di quando ha dovuto comunicarlo alla moglie e all’altro figlio.

Il pianto a dirotto per la perdita di Rosita e per il dolore che le altre persone che amava avrebbero dovuto sopportare sapendo che lei non c’era più. «E davvero si vuole fare credere che quest’uomo abbia istigato al suicidio della figlia? Avrebbe potuto vivere pensando al dolore che avrebbe provocato alla sua famiglia?». Nel mirino quella frase con la quale era stata accolta la figlia Rosita il giorno precedente a quello della tragedia, al suo ritorno dal centro estivo: il padre le avrebbe detto «allora hai ripensato alla decisione di buttarti dal tetto del liceo», evocata la sera della scoperta del cellulare che la studentessa aveva sottratto al padre. «Se con quella battuta infelice avesse nutrito la certezza che con essa si sarebbe concretizzata l’eventualità del suicidio – ha detto Martines – ci sarebbe il dolo. Ma questo è impossibile, nessun padre vuole la morte della propria figlia. Non c’è dolo, cioè la volontà. Altro punto da chiarire sul quale si è soffermata l’accusa per sostenere l’accusa di maltrattamenti che avrebbero portato alla morte di Rosita, è quello della prevedibilità del suicidio di Rosita. Ebbene la sera del confronto, quando la ragazza aveva palesato questa intenzione e i genitori volevano chiamare il 118, era stata la figlia stessa a dire che non l’avrebbe fatto. È lei stessa nella lettera lasciata ai genitori a dire, rivolta al padre “Povero illuso, pensavi davvero che mi sarei accontentata di questa vita?” Povero illuso, perché l’esito era impensabile» dice davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Giovanni Trerè (a latere Roberta Dioguardi e sei giudici popolari). Quella Corte che il 14 giugno ascolterà le repliche per poi chiudersi in camera di consiglio ed emettere la sentenza.

I maltrattamenti

Sui maltrattamenti il legale Martines aveva già alzato il tono della voce ricordando che il capo di imputazione parlava di maltrattamenti fin dalla nascita di Rosita: «Accusa che fa rabbrividire». «Non è vero» è la frase che ha ripetuto più volte rimandando al mittente le ipotesi di accusa sollevate dal pubblico ministero Sara Posa che aveva chiesto sei anni di carcere per Roberto Raffoni e 2 anni e 6 mesi per Rosita Cenni. «Non è vero che Rosita era soggetta a privazioni materiali e morali. Non è vero che vivesse in isolamento sociale, non è vero che non aveva il permesso di uscire mai, non è vero che Rosita e il fratello abbiano avuto un’infanzia infelice, non è vero che aveva divieti nell’alimentazione, non è vero che è stata processata dai genitori fino alle 2 di notte e che ha pianto tutta la sera, non è vero che dal computer sono state cancellati file, non è vero che i genitori hanno cancellato messaggi dalle chat del telefono, non è vero che per Rosita non si spendevano soldi, non è vero che non fosse amata e che non fosse ben voluta».

L’esordio

La voce in più di una circostanza rotta dall’emozione. D’altra parte lo aveva anticipato alle 10 di mattina, quando aveva preso la parola. «Sarò commosso, per l’eccezionalità della vicenda, per il cammino fatto con i genitori, durato quattro anni, nei quali ho partecipato alla loro sofferenza, al loro dolore, all’angoscia di aver scoperto di non conoscere la propria figlia. Una ragazza della quale mi sono innamorato, scoprendola nei suoi temi, negli scritti, nei disegni. Un altro evento di eccezionalità è stato il fatto di aver dovuto dare prova del dolore dei miei assistiti per la morte della figlia».

I rapporti con i genitori

L’avvocato Martines ha voluto ricostruire l’evoluzione dei rapporti tra Rosita e i genitori, puntando sulla mail a un’amica del febbraio 2014 nella quale per la prima volta parlava del decadimento del rapporto con padre e madre, cercando di allontanare l’idea di maltrattamenti psicologici durati anni. «Rosita ha maturato un conflitto che lei stessa non era capace di esprimere. Nella corrispondenza con le amiche abbiamo traccia che porta a pensare il sentimento che provava per i genitori sia degenerato in odio. Ma non ci sono riferimenti a cause specifiche. Come sfogava questo conflitto irrisolto? Con la polemica. Per questo è nato il corto circuito comunicativo all’interno della famiglia. Rosita enfatizzava la realtà. Si vedeva grassa e non lo era, si vedeva brutta e non lo era, aveva un’idea della malattia di cui soffriva che non corrispondeva al vero. Prima si definiva felice. Il fatto che una famiglia sia discreta, parsimoniosa, riservata, che non familiarizzi con i vicini non può diventare qualcosa che non riesco neanche a dire».

Il caso del telefono

L’avvocato Martines ha voluto anche chiarire la vicenda del telefono che Rosita aveva preso al padre. «È lei stessa a dire nei suoi scritti perché lo ha fatto. Si era dichiarata al ragazzo che le piaceva e lui le aveva detto di sentirsi tramite whatsapp. Era per il suo sogno d’amore. A un’amica ha scritto: “Mi è salito il crimine”. Nelle lettere che lascia Rosita dice che lo aveva fatto e non se ne pentiva». Sul famoso telefono, poi, il difensore dei coniugi Raffoni contesta la ricostruzione dei consulenti dell’accusa sugli spostamenti di Rosita. «Quel telefono rimane nella disponibilità di Rosita anche dopo la scoperta che lo aveva lei e non era stato rubato. L’innocente inganno, se così lo posso definire, di Rosita è visto da genitori come un tradimento della fiducia. I messaggi non sono stati cancellati dai genitori. Lo dice Rosita stessa quando al padre nelle lettere dice che non ha letto i messaggi peggiori perché lei li ha cancellati. Il perito dell’accusa colloca il telefono il giorno 15 giugno a Forlì, ma Rosita è a casa perché è domenica e il centro estivo frequentato da Rosita è chiuso». La battaglia torna sui messaggi mandati, su quelli letti o cancellati, anche la mattina della morte. «Non c’era preoccupazione fino a quel “vengo al Classico”».

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