«Darei la vita per parlare ancora cinque minuti con mia figlia»

Rimini

FORLÌ. «Darei la mia vita per poter parlare cinque minuti con mia figlia, perché so che i problemi si sarebbero potuti risolvere. Ora, però, non posso fare nulla. Non saprò mai perché ha scritto quelle cose su di noi». Rosita Cenni, madre di Rosita Raffoni, la studentessa 16enne che si è uccisa lanciandosi dal tetto del liceo Classico il 17 giugno 2014, non riesce a trattenere i singhiozzi davanti alla Corte d’Assise. Il rapporto con la figlia, che per volontà sua e del marito porta il suo stesso nome, è stato passato al setaccio dalle domande del sostituto procuratore Sara Posa, dell’avvocato difensore Marco Martines e del presidente della Corte Giovanni Trerè, ma lei stessa è la prima a capire che tanti sono i lati oscuri dei pensieri della studentessa. Quegli scritti lasciati da Rosita Raffoni sono colpi duri da assorbire dal cuore della madre, forse ancor di più proprio perché non conosciuti, ignoti. «Ci penso tutti i giorni – riprende Rosita Cenni – ma non so darmi una spiegazione del perché abbia scritto quelle cose, perché con gli altri diceva alcune cose e con noi altre».

I chiarimenti col difensore

Nel processo per la morte della 16enne, nel quale sul banco degli imputati ci sono i genitori Rosita Cenni e Roberto Raffoni, con le ipotesi di accusa di maltrattamenti fino alla morte e, solo il padre, di istigazione al suicidio, ieri mattina sulla sedia dei testimoni si è seduta nuovamente la madre per il contro interrogatorio dell’avvocato difensore. Due e mezza di chiarimenti, difese, spiegazioni, fino all’ammissione finale. «Vorrei parlarle per 5 minuti, ora che so la sua sofferenza mi sarei comportata in maniera diversa – dice la mamma –. Ci penso tutti i giorni, una figlia nessuno te la può togliere dal cuore. A volte vedo qualcosa nei negozi e penso “questo le sarebbe piaciuto”. Ho conservato le sue cose perchè mi ricordano i momenti belli». La donna ha poi chiarito alcuni particolari emersi durante il processo: la candela accesa la sera? «Mi piaceva l’atmosfera, non era per risparmiare sulla luce»; l’alimentazione? «Non c’erano restrizioni, mangiava carne bianca e rossa, a casa nostra come da altri»; la presunta voglia di capi firmati della figlia? «Se voleva qualcosa la poteva comprare, si vestiva come voleva, a volte l’accompagnavo io, altre volte andava con le amiche, non posso dire che fosse legata ai capi firmati, voleva cose che volevano gli altri giovani, sono rimasta male quando ha detto che la facevamo sentire una stracciona, non si è mai lamentata con noi che le mancasse qualcosa».

Rapporti complicati

Fino ai rapporti che si erano fatti tesi negli ultimi tempi. «Era diventato difficile confrontarsi con lei – ha detto la mamma –. Diceva che ero io che non capivo, che era inutile parlare. Le ho anche proposto di andare insieme da uno psicologo, ma mi ha risposto che non era matta e che aveva proplemi solo con noi genitori. Era una persona determinata che sapeva cosa voleva, quindi non ho insistito». Purtroppo è stata decisa fino a quel tragico gesto del 17 giugno 2014.

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