Pazienti legati ai letti, parla l'accusatrice

Rimini

PREDAPPIO. La “grande accusatrice”, psicologa con un contratto libero professionale alla San Camillo fino al marzo 2016, non si tira indietro, ma preferisce non rivelare la propria identità apparendo di spalle anche nell’intervista in onda ieri pomeriggio alla “La vita in diretta” su Rai 1, che ha trattato diffusamente la vicenda dei presunti maltrattamenti nella struttura di Predappio.

Raggiunta telefonicamente dal “Corriere”, la specialista racconta la sua parabola all’interno della Casa, puntando chiaramente il dito contro il direttore, padre Riccardo Ratti. «Le cose hanno iniziato a cambiare in peggio quando lui è diventato superiore (la qualifica di dirigente della struttura ndr)», racconta, ancora scossa.

Al lavoro per tre anni con un contratto libero professionale, confessa che «nel primo anno si stava bene, poi quando la Fondazione San Camillo ha cambiato il superiore le cose sono peggiorate e la situazione è diventata per me progressivamente insostenibile al punto che sono andata via». Stremata al termine di una battaglia che definisce «molto dura». «Ho iniziato da subito a rilevare la gestione a dir poco sconclusionata di padre Ratti – prosegue –. Poi quando ho visto come venivano trattati alcuni pazienti la mia protesta è diventata più vibrante e, dopo una prima apparente reazione degli operatori, davanti a me si è alzato un muro. È per questo che ho avuto lo scrupolo di girare quel video, tra il 2015 e il 2016, per documentare quanto avveniva».

Alla motivazione di padre Ratti sulla necessità di quei trattamenti per la penuria di personale, replica con un sorriso amaro. «Io, però, gli ricordavo la legge e gli obblighi verso i ricoverati. A mio avviso si era perso il collegamento con la realtà, come sul divieto di fumare per quei pazienti affetti da una patologia particolare che provoca rigidità polmonare e abbassamento dell’ossigeno nel sangue, proprio per essere stati fumatori in passato. Ma quando venivano loro concesse le pause dai lacci, li lasciavano prendere comunque le sigarette. Una contraddizione. E poi non si può dire semplicemente a un paziente psichiatrico di non fumare proprio quando Ratti faceva lo stesso nel suo studio».

Ma quello che ancora non perdona sono le presunte conseguenze sulla mente dei pazienti, 4 o 5 quelli che ha osservato. «Un malato psichiatrico non è insensibile, anzi – rivendica la psicologa –. E l’immagine del ricoverato che solleva la poltrona alla quale è legato portandosela dietro pur di andare in bagno e non farsela addosso, ne è la prova eloquente. Le umiliazioni restano, e bruciano anche nella mente di queste persone». Sconcerto anche per la reazione del paese.

«La realtà che passa all’esterno è un’altra rispetto a quella dentro l’Opera. E poi, col fatto che vi lavorano persone del posto, credo che la difesa d’ufficio sia comprensibile». Una spiegazione anche per l’immobilismo dei parenti. «In realtà una sola volta gli operatori sono rimasti sorpresi da una visita, per il resto erano tutte programmate e in ogni caso chi arrivava ci metteva alcuni minuti per raggiungere il proprio caro ricoverato». Ma alcuni familiari avevano firmato una sorta di liberatoria per questo tipo di trattamenti. «Sì ma non credo conoscessero la legge e hanno semplicemente avuto fiducia nell’istituzione».

«Non ho mai minacciato padre Ratti di denunciarlo. Ho sempre esposto le mie perplessità anche all’équipe interna. Ma quando, dopo essermene andata, ho saputo che due ospiti ai quali ero molto affezionata erano morti (circostanza non collegata all’inchiesta), allora ho deciso di farmi consigliare dall’avvocato Giulio Cola, di Cesena che mi ha accompagno in Questura. Penso che il percorso sia appena iniziato ma ho molta fiducia nella giustizia».

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