Saviano: «La mafia ha paura di voi che mi ascoltate»

Forlì

FORLI'. «Il più grande dolore che possa capitare a un paese è che le persone comincino a pensare che vivere onestamente è inutile. È quello il momento in cui collassa, è quello che sta succedendo. Non fate che accada. Tutto qua». Roberto Saviano cita lo scrittore calabrese Corrado Alvaro per arrivare al cuore degli studenti forlivesi. Perché tutta la serata di ieri al PalaRomiti, gremito (qualcuno è rimasto anche fuori) era per loro. Rappresentati dai loro compagni Federico Zappia e Giulia Tampieri del Liceo Classico, lo hanno accolto col sindaco Davide Drei che li ha ringraziati per l’occasione che hanno dato alla città. «Sono passati due mesi dal giorno in cui dovevamo incontrarlo – dicono – ci promise che sarebbe venuto e l’ha fatto». Saviano poi ha parlato sempre con loro, anche se il suo saluto di ingresso, da ex ragazzino tifoso di basket, ha commosso magari più qualche prof o qualche genitore sugli spalti: «Sono super contento di essere a Forlì. Mi hanno detto che qui siamo nel palazzetto dove giocava la Jolly Colombani, mamma mia, davvero non potevo mancare...».

Parla del suo libro per spiegare la differenza fra vivere rubando e vivere onestamente, snocciola video e foto che hanno fatto di un criminale ammazzato a 19 anni un santo, che ora nei quartieri di Napoli si prega per una buona rapina, per ammazzare giusto e non finire in galera. «I paranzini sono i giovanissimi figli della piccola borghesia, che vedono i loro genitori che lavorano, faticano per il mutuo, per pagare la casa, le bollette, li vedono come degli sfigati. Loro fanno il salto, prendono una pistola si guadagnano una piazza di spaccio, la gestiscono ammazzando senza rimorsi sapendo che anche a loro toccherà morire presto, ma in quel poco tempo avranno soldi e saranno i re. Facendo paura a tutti». Il punto di non ritorno è lì, «quando pensi che la tua fatica e il tuo impegno non valga niente allora o emigri, come la mia generazione, o sei nello sconforto totale. Qualcuno prende quella via e succede non solo a Napoli, ma anche in Italia e in Europa».

«Tutto questo come si ferma: conoscendo. Quello che succede intorno lo fermi prendendo il tuo tempo per capire dandolo ai libri. Non a un post o a un articolo, quelli sono veloci, conoscere è un percorso. Quando leggo sono io il regista che sceglie le immagini, che creo con lo scrittore. A me scrivere ha salvato la vita».

Parla circa un’ora e un quarto poi vuole le domande. I ragazzi gli chiedono cosa gli manchi in una vita sotto scorta e lui dice le passeggiate, e «la possibilità di pensare che tutto questo finisca mai, ormai sono passati 11 anni». Se gli chiedono a chi si è ispirato cita, da non credente, don Peppe Diana, ammazzato quando lui aveva 16 anni. «Penso sempre che oggi io sono più grande di lui: aveva 30 anni quando gli spararono in faccia e io ne ho 37 oggi. Lo hanno ammazzato perché aveva scritto che non avrebbe taciuto e lo aveva attaccato ai muri quello che denunciava, la gente lo ascoltava. Di quello hanno paura: non di me che sto qua a parlarvi, ma di voi, che ascoltate».

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