«Essere felici è dipendere dagli altri»

Rimini

FORLIMPOPOLI. Arriva a Forlimpopoli Carlo Petrini, e non è la prima volta. C’è infatti anche un po’ del suo in Casa Artusi, che oggi gli ha consegnato il Premio Artusi 2016, e lì ci sono soprattutto amici di vecchia data e importanti come gli studiosi dell’alimentazione Alberto Capatti e Massimo Montanari, con cui ha condiviso l’idea e la creazione anche di un’altra istituzione: la prima Università di Scienze gastronomiche al mondo.

Nella motivazione del premio si fa riferimento al suo «impegno titanico» per la salvaguardia della biodiversità.

«Ho visto e mi sono detto, ehi non esageriamo! (lo dice in dialetto piemontese e sorride, ndr). Comunque in Romagna torno volentieri, ho sempre pensato che questa terra sarebbe stata un buon balsamo per la mia vecchiaia, ma mi trovo ancora ad essere in giro per il mondo in continuazione. Per il progetto artusiano poi sono sempre stato a disposizione, e poi qua ritrovo una bella compagnia che è la mia compagnia».

Certo che di uno sforzo titanico per continuare la battaglia per la biodiversità, sostenuta anche dal suo Slow Food, ce n’è proprio bisogno. Il Living planet report 2016 del Wwf appena pubblicato ci dice che nel 2020 potremmo aver perso il 67 per cento di specie animali e vegetali.

«Il fatto è che lo si sa già a tempo. Solo che la governance internazionale si sedeva ai tavoli e quando si parlava di 2050, già metà della platea si considerava... salva. Il 2020 però adesso è lì, dietro l’angolo. Bisogna essere capaci di leggere il presente che è già caratterizzato da spostamenti di intere colture per i cambiamenti climatici, e con essi di intere culture. Guardavo fuori da casa mia, le Langhe, qualche settimana fa. La vendemmia del Nebbiolo, sempre raccolto a metà ottobre, non era ancora cominciata e già le foglie delle viti erano gialle. Mai visto. Vuol dire che la pianta aveva già dato tutto, e che la vendemmia se adesso va così dovrà essere per forza anticipata di un mese o quasi. Alla lunga potrebbe voler dice che che l’Alta Langa potrebbe anche non essere più adatta ai vigneti. I popoli oggi migrano in molta parte per i mutamenti del clima, laddove questo non garantisce più loro la sovranità alimentare».

Quindi è di questo che si occupa oggi un gastronomo?

«La gastronomia in tutto questo ha un ruolo dirimente. Al tempo di Artusi magari interessava il bello e il buono, oggi se si parla di cibo si deve parlare di giusto, quindi di adeguata remunerazione per i contadini, di lotta al caporalato, come si deve parlare di pulito quando si affronta il tema della fertilità dei suoli, ad esempio».

Quest’anno, per la prima volta in maniera centrale, l’edizione torinese di Terra Madre - Salone del gusto, ha parlato di migrazioni. Il tema ormai è necessariamente all’attenzione quotidiana, e i fatti di cronaca di questi giorni in Emilia-Romagna hanno segnato purtroppo una pagina non bella di mancata accoglienza.

«Quanto successo nel Ferrarese è una guerra fra poveri che preoccupa e che non ha giustificazione alcuna. Anche negli anni Cinquanta popolazioni italiane povere accolsero gli alluvionati del Polesine. Il disagio non giustifica, forse è cambiato qualcosa nel senso di comunità. Tornando al tema generale delle migrazioni, basta considerare una cosa: l’Italia all’inizio del Novecento aveva 30 milioni di abitanti e l’Africa 100 milioni. Nel 1990 l’Italia ne aveva 52 milioni e l’Africa 500 milioni, nel 2010 l’Italia 60 milioni e l’Africa 1 miliardo e 100 milioni. Nel 2050 in Italia saremo sempre 60 milioni, in Africa 1,8 miliardi. Vuol dire che ogni anno ci saranno 25 milioni di giovani africani sul mercato del lavoro, ma in Africa ci sarà ancora più desertificazione e “land grabbing” se non si pone un freno. Cosa potrà fare un giovane africano se non partire? Se l’Europa non riflette su questo, e se chi emigrava fino a poco tempo fa, oggi innalza muri, su questo tema si perderà ogni senso e ci sarà uno scontro fra civiltà».

E le migrazioni si riflettono per forza sui sistemi alimentari.

«La gastronomia è sempre stata un insieme di contaminazioni. Il meticciato dei popoli porta anche gusti e sapori nuovi, un sincretismo che è sempre esistito anche in Italia, la quale non dovrebbe chiudersi a riccio».

Il movimento Slow Food da lei fondato ha fatto della battaglia delle tipicità un progetto concreto e un messaggio potente. Ora cambia tutto?

«Noi abbiamo un progetto che si chiama Arca del gusto, con cui difendiamo prodotti che sarebbero scomparsi, e con essi intere culture e saperi. Sono centinaia in Italia, e già migliaia nel mondo i prodotti che abbiamo “imbarcato”, e non so quanti altri ce ne possano essere ancora. Continueremo questo lavoro, per non far passare il paradigma della monocoltura massiva e industriale. Ma se in una società arrivano persone nuove dobbiamo accogliere anche la loro ricchezza, la convivenza è sempre un dare e un prendere. Torniamo a essere felici! A vivere male perché non vogliamo valorizzare le diversità ci facciamo del male da soli».

La felicità è il tema di cui lei parlerà a Milano il prossimo 6 novembre con Luis Sepùlveda e Pepe Mujica, in un incontro che si annuncia tutto esaurito. Le persone hanno bisogno di qualche ricetta, per imparare di nuovo a ... cucinarsela. Ci dia la sua.

«Di certo la felicità è il tema essenziale di tutta la politica mondiale. Per quanto mi riguarda ho capito che per essere felici è indispensabile essere dipendenti. Tutti aspirano all’indipendenza, ma siamo felici se amiamo qualcuno e qualcuno ci ama, altrimenti siamo semplicemente soli. La seconda condizione per la felicità è più strettamente politica e riguarda il darsi da fare per il bene comune. Tutto qua».

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