Passatore condannato dalla Corte, assolto dal popolo

Rimini

FORLÌ. Il Passatore redivivo, in capparèla e jeans, mantiene lo “sguardo truce”, quel segno particolare indicato in calce alla sua scheda segnaletica un secolo e mezzo fa, rispolverata per processarlo per la prima volta nella storia. I tempi della giustizia si sa non sono brevi. Stefano Pelloni lo ha fatto rivivere Ivano Marescotti, adatto più che mai alla parte del brigante romagnolo, attore vero fra magistrati e avvocati veri, attori a loro volta per una notte, ma con doti sorprendenti per il palcoscenico.

Un processo “vero” con tanto di Corte, accusa, difesa, testimoni, e un imputato ai ferri condotto dai gendarmi attraverso due ali di folla plaudenti e rumoreggianti e per questo redarguite dall’inflessibile, e vero, giudice. Un’altra piccola folla sabato sera è invece rimasta fuori dalla sala di San Giacomo (per esaurimento dei posti) che nella Giornata della legalità ha ospitato l’inedito dibattimento. Due i capi di imputazione per il brigante: le razzie della notte del 25 gennaio 1851 a Forlimpopoli, e la violenza sessuale ai danni della giovane Gertrude Artusi, sorella del ben noto Pellegrino. Uno ad uno hanno sfilato i testimoni: un formale e militare Pietro Caruso nei panni del capitano Zambelli, per una vita “cacciatore” del brigante, un compassato Denio Derni nei panni del borghese Pellegrino Artusi, preso di mira a più riprese da Passatore e suoi sodali come colui che «scrive libri per insegnare alle azdore a fare i cappelletti e i passatelli...». Uno scoppiettante e talentuoso Luca Ferrini, avvocato in Cesena, e sabato sera nella tonaca del prete amico dei briganti don Valgimigli, ambiguo al punto da finire sospettato di essere lui stesso autore della violenza sessuale contestata al Pelloni. La pubblica accusa sostenuta dal vero procuratore Sergio Sottani è stata tutta volta a smascherare l’efferatezza di un uomo e a demolirne il mito «fu un criminale e non è lui il simbolo della Romagna», approdata alla logica richiesta di condanna. Accorata la parte civile in favore della violata e poi lasciata sola Gertrude Artusi, sostenuta dall’avvocato Marco Martinez. Tecnica e convincente la difesa del Passatore sostenuta dal legale Roberto Roccari che ha rimarcato l’insussistenza di ogni prova (nessuno vide Pelloni quella notte a Forlimpopoli, nemmeno Artusi) e rispolverato il garantista motto latino “in dubio pro reo”. E lui, il Passatore? Ha mischiato italiano e dialetto nella sua dichiarazione. Quel brigante che avrebbe dovuto diventare prete sapeva parlare, rinfocolare il popolo invocando la lotta contro i ricchi e i tiranni, ha sfoggiato il suo successo con le signore, e ha citato eroi patri e poeti, rivendicando quell’appellativo di “cortese” che proprio Pascoli creò per lui e che ha attraversato i secoli. Convinta dalla requisitoria della difesa, affezionata comunque al mito, la giuria popolare, e romagnola, alla fine ha assolto il “suo” brigante: 200 a favore, 152 per la sua colpevolezza. La Corte composta dai giudici Giovanni Trerè, Roberta Dioguardi, Lucia Spirito e presieduta da Orazio Pescatore non ha invece avuto tentennamenti e, benché dotata di un buon grado di ironia, ha deciso per la «massima condanna». Comminando altresì la «pena accessoria ad aeternum del divieto di fregiarsi del titolo di cortese». E per non deludere il popolo, la giuria ha decretato comunque che : «atteso peraltro che la responsabilità penale è personale, nonché in forza dei principi di libertà di pensiero e di iniziativa economica attualmente vigenti, resta ferma la facoltà dei popoli della Romagna di andare in contraria opinione e di utilizzare detto titolo a fini commerciali nonché di auto identificazione». Quanto al caso della povera Gertude, la Corte ha rimandato gli atti alla Procura per ulteriori indagini, e magari un altro processo, quasi vero, si celebrerà.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui