Omc a Ravenna: «Gli idrocarburi fondamentali almeno fino al 2040»

RAVENNA. «Puntare a una crescita delle energie rinnovabili, escludendo il carbone e riconoscendo al gas un ruolo fondamentale nel processo di transizione. Valorizzare la produzione domestica di energia sia fossile sia rinnovabili, consente di formare un mix energetico adeguato, disegnando un futuro sostenibile dal punto di vista ambientale economico e sociale». È questa la linea di Assomineraria. A dettarla è il direttore generale dell’associazione, Andrea Ketoff, che nei gironi scorsi è stato ascoltato dalla commissione Attività produttive della Camera nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle prospettive di attuazione e di adeguamento della strategia energetica del Paese al Piano nazionale energia e clima per il 2030. Un piano che punta a studiare una transizione verso un nuovo modello energetico senza carbone e sul quale Assomineraria non ha però nascosto in commissione alcune perplessità insistendo sul fatto che in Italia gli idrocarburi restano la fonte più sicura di approvvigionamento. «Oggi le fonti utilizzate in Italia sono al 40% gas, al 36% petrolio, all’8% il carbone e al 6% le fonti rinnovabili. Secondo i dati 2018, l’Italia importa il 75% delle energie che consuma contro una media europea del 54%. Compriamo dall’estero oltre il 90% del nostro fabbisogno di idrocarburi, le importazioni di energia costano al nostro paese circa 40 miliardi di euro, una bolletta energetica che vale il 2% del Pil. Nel 2018 la produzione domestica di idrocarburi, che ammonta a circa 9,3 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ha ridotto questa bolletta energetica di 3,1 miliardi di euro. Le riserve di idrocarburi ammontano - spiega Ketoff - a circa 330 milioni di Tep e costituiscono un potenziale importante per il paese. Il solo bacino adriatico potrebbe contribuire al nostro fabbisogno con una produzione di oltre 4 miliardi di metri cubi l’anno, oggi molto meno di 3».

Gli introiti per lo Stato

Ma quanto vale il mondo dell’offshore? Ketoff cita uno studio pubblicato recentemente da Confindustria energia che ha stimato, nel periodo tra il 2018 e il 2030, 13 miliardi di euro di investimenti solo su progetti già definiti «con un impegno economico di 18 miliardi e potrebbero salire anche di molto». «Per quanto riguarda l’occupazione, il settore attualmente impiega circa 20mila addetti soltanto in corrispondenza dei siti operativi ai quali si aggiungono oltre 100mila addetti impegnati nel cosiddetto para-petrolifero per l’export, con un fatturato di oltre 20 miliardi l’anno che non è secondario nel bilancio del nostro import-export. Da considerare, inoltre - insiste Ketoff -, il contributo per le casse dello Stato. Il piano sembra prevede l’abolizione delle franchigie per la produzione, con un aggravio di royalty di oltre 54 milioni di euro l’anno. Vorremmo segnalare che ciò compromette la redditività di oltre il 60% delle attuali concessioni minerarie, per circa un 20% della produzione principalmente a gas».

Idrocarburi fondamentali

Senza idrocarburi al momento non si può dunque stare. E sarà così ancora per un paio di decenni al minimo. Ne è convinta Assomineraria secondo la quale il modello energetico del futuro dovrà fornire energia pulita a elevata densità che sia però anche economica e continua. Peccato però, dice Assomineraria, che a oggi non esista una sola fonte che corrisponda a tali requisiti. «Fondamentale quindi puntare su un mix energetico che promuova le rinnovabili e preveda l’utilizzo delle fonti fossili necessarie in particolare in settori come trasporto, grande industria e chimica - continua Ketoff -. Il mondo non dispone ancora di tecnologie low carbon tecnicamente ed economicamente scalabili a un livello tale da innescare una rapida sostituzione degli idrocarburi. Secondo le previsioni, al 2040-2050, dei maggiori organi internazionali accreditati questi rimarranno ancora fondamentali. La mancata valorizzazione della produzione domestica a favore dell’importazione determinerebbe una serie di impatti negativi a livello del sistema paese e non solo perché nel breve, medio e lungo periodo si avrebbe meno investimento, meno risorse, meno entrate per le casse dello Stato ma anche meno occupazione, meno know how, una bolletta energetica più pesante, più dipendenza dall’estero ed oltretutto emissioni di gas serra superiori del 25% rispetto alla produzione a chilometro zero. Bisogna dunque evitare fughe in avanti che potrebbero mettere a rischio il conseguimento di importanti obiettivi ambientali. Rinunciare a misure che potrebbero fin da subito a ridurre le quantità complessiva di emissioni e attendere invece soluzioni che potrebbero non arrivare affatto significa non prevedere una transizione e correre il rischio di fallire gli obiettivi o conseguirli in ritardo con ulteriore aggravio di costi economici e sociali».

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