A Santarcangelo chiude la pescheria di via Saffi, sipario su un secolo di storia

SANTARCANGELO. Il carretto passava e quell’uomo gridava… pesce!. Quando Giovanni Casadei e Maria Poletti anticipavano per fiere e mercati il ritornello rivisitato dei celebri Giardini di marzo di Lucio Battisti era da poco finita la prima Guerra Mondiale, i carretti si chiamavano ancora “birocci” e si scrivevano le prime pagine dell’incredibile legame fra una famiglia e i prodotti ittici. I primi paragrafi di una storia lunga un secolo, chiusasi lo scorso 31 dicembre quando Antonia Lepri ha abbassato per l’ultima volta la serranda della pescheria-rosticceria lungo la scalinata di via Saffi.

Per lei l’ufficio anagrafe “dice” quasi 69, con ben 52 anni di lavoro sulle spalle (altro che quota 100 qua!), ma avrebbe proseguito ben volentieri: «Ho iniziato a 16 anni come impiegata a Milano: avevo fatto le scuole commerciali e grazie a un’inserzione sul Corriere della Sera mi hanno chiamata a casa. Allora era da sogno, il lavoro c’era, mica come oggi… E non mi sarei fermata neanche adesso perché fisicamente sto bene e di lavoro ce n’era parecchio, ma sono in pensione già da otto anni e ho deciso che non era il caso di morire dietro il banco».

Come è nata la pescheria-rosticceria?

«L’aprì mia mamma Amalia Casadei nel 1976, rientrando da Milano dove si era trasferita nel 1961 con mio padre Enzo. Lei era figlia e sorella di pescivendoli e con papà decisero di cambiare destinazione al negozio di generi alimentari che la famiglia di lui conduceva già da fine ‘800 e che avevano affittato per andare in Lombardia: mamma aprì quella che era una delle prime, se non la prima, pescheria-rosticceria in assoluto sul territorio. Io vi sono entrata nel 1992 licenziandomi dall’Enel (la pazzia evidentemente l’abbiamo nel Dna) e sono sempre rimasta unica titolare: fino al 2000 con l’aiuto di mio marito e del personale. E dopo la sua morte da sola».

E faceva tutto da sola?

«Negli ultimi 6-7 anni e fino all’ultimo giorno la mia vita aveva ritmi incredibili: dal martedì al venerdì sveglia alle 3.30 per andare al Mercato ittico di Rimini e partecipare all’asta delle 4.30, poi alle 8 arrivava il personale e a seconda dei giorni si faceva il banco, si lavava l’automezzo e su richiesta si cuoceva il pesce. Sughi, insalate e brodetti li preparavamo senza ordinazione, mentre il pesce arrosto o al forno si sceglieva dal banco e lo preparavamo per l’ora desiderata. L’unico giorno che ci siamo sempre dati di riposo era la domenica, per mio padre sacra per stare in famiglia: non abbiamo mai lavorato a meno che fosse una vigilia di Natale o un festivo importante».

Quella della pescheria lungo la scalinata è solo l’ultima parte della storia...

«Quanti racconti ho sentito da bambina. Nonna Maria Poletti (classe 1899) e il nonno Giovanni Casadei con il cavallo e il biroccino andavano a far spesa a Cesenatico e poi a vendere per mercati e fiere a Pennabilli, Pugliano, Sarsina, Perticara. Solo che il nonno era amante dei cavalli e comprava quelli più belli da corsa invece che quelli da tiro e in certe strade bianche la nonna raccontava che doveva scendere a spingere perché l’animale non tirava abbastanza. Nel dopoguerra alla pescheria di Santarcangelo i fratelli di mia mamma (Quinto Casadei e la moglie Uliana ed Elvira Casadei con il marito Guerrino) avevano poi un loro banco di pesce crudo a testa, che hanno tenuto fino alla pensione. Una vera famiglia di pescivendoli insomma».

Come è cambiato il lavoro in questi 40 anni?

«Negli ultimi tempi nei giovani c’è più amore per il pesce, magari già pulito o cotto addirittura: una volta una donna stava più in cucina, ora fa mille cose, lavora, va in palestra, porta i figli a far sport e ha meno tempo. Quando sono subentrata a mia mamma, il pesce non lo si puliva e lei quasi mi sgridava quando lo facevo. Oggi invece si cerca così, già pronto da mettere in forno o sulla griglia».

La soddisfazione più bella?

«Il rapporto quotidiano con la gente, con clienti diventati di casa. Di lavoro ce n’era infatti tanto e non ho chiuso perché mancasse. Anzi, avevo tre dipendenti anche se part time. Fra l’altro io e mia sorella abitiamo proprio lì sopra e abbiamo cercato qualcuno che subentrasse con tutte le accortezze del caso. Ma ogni tanto un po’ di magone c’è: ancora oggi dopo 10 giorni ricevo telefonate di prenotazione e quando incontro la gente per strada tutti mi chiedono “perché hai chiuso?” con i goccioloni agli occhi: molti sperano che una delle mie dipendenti riesca ad aprire una sua rosticceria magari con il mio aiuto. Ce n’è una che vorrebbe provare a cercare qualcosa e io sono più che disponibile a darle tutta la mia collaborazione». La storia non è ancora finita?

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