Dalla tazzina da caffè all’elicottero. "Il prodotto è bello quando funziona"

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IMOLA. Da una tazzina a un elicottero. Due confini. In mezzo un universo di fantasia, creatività, visione, competenza e tecnica. Il mare dove può nuotare un designer come Pier Luca Freschi, 58 anni, docente del corso di design industriale all’Accademia delle belle arti di Bologna, che proprio in questi giorni ha festeggiato i trent’anni del suo studio, un open space che trabocca di libri, riviste, attrezzi («perché ho imparato anche a costruire pezzi utili per i miei progetti»), disegni e prodotti realizzati durante decenni di carriera.

Migliaia di carrelli per la spesa che tutti abbiamo “guidato” almeno una volta portano la sua firma. E proprio da qui è iniziata la sua storia. «Il Fuso. Lo realizzai per la Filomarket agli inizi degli anni ’90. Tutto in alluminio. Devo tantissimo a quella storica azienda di Imola, in particolare a Roberto Rivi». Sono seguite decine di progetti, di schizzi, di modelli. «Lavori di tutti i generi», racconta Freschi sfogliando le foto di un catalogo che ripercorre la sua avventura professionale. C’è una pressa per l’uva realizzata per la Defranceschi, azienda leader nel settore enologico, una macchina per passatelli, Gilda, che sembra una ballerina di plastica, un macchinario per l’alimentazione dei bovini e pure un elicottero messo già in produzione da una nota impresa.

La passione quando è nata?

«Il design l’ho incontrato a fine anni ’70 quando facevo architettura a Firenze. Era il momento delle utopie radicali di Gianni Pettena, Adolfo Natalini, Roberto Segoni, tutta gente che ha fatto la storia. Lì ho avuto una bella botta... Poi vado a Torino dove studio car design. Una volta si chiamava così, non automotive... Studiavamo sulle riviste di settore, andavamo a vedere le cose direttamente. Un altro periodo d’oro: quello di Giugiaro, Pininfarina, Bertone, Sacco ma potrei citarne mille. Nel frattempo frequentavo la facoltà di architettura a Milano e seguivo le lezioni di Castiglioni».

L’occasione invece quando è arrivata?

«Una casualità. In vacanza in Grecia conosco il figlio della direttrice del negozio di Bulgari di via Condotti. Un giorno vado a trovarlo e porto alcuni schizzi di gioielli. Potresti venire qui, mi dicono, e sto un mese a Roma con il più vecchio disegnatore di Bulgari che alla fine mi dice: tu non sei portato per i gioielli ma per il design, e mi mandano a Milano in uno studio che lavorava per loro. Facevamo collezioni da scrivania per Bulgari e lavoravamo per Rolex e Dupont. Da lì passai nello studio di Hisao Hosoe, un grandissimo maestro. Rimasi tre anni, poi la scelta di tornare a Imola e iniziare un percorso individuale».

E arriva il primo lavoro importante: il carrello Fuso.

«È da lì, da quel bellissimo progetto, che ho imparato tutte le tecniche di stampaggio e produzione, dall’alluminio alla plastica. Il lavoro del designer, almeno come lo interpreto io, deve essere sempre a strettissimo contatto con l’azienda altrimenti non si approda a niente».

Quanto conta nel design la “destinazione” del prodotto? È la funzione che segue la forma o viceversa? Insomma, quanto si corre il rischio di sacrificare la funzionalità sull’altare del bello?

«È la funzione che conta più di ogni cosa. Altrimenti un prodotto diventa stile e basta. Il rischio di confondere le cose c’è ed è per questo che io lavoro sempre a contatto con tecnici e ingegneri. Prendiamo l’elicottero. Quanta gente mi ha chiesto cosa ne sai tu di aerodinamica? Se lavori bene in sintonia con il tecnico riesci a saperne. È la metodologia professionale che porta a far sì che si possa allo stesso tempo saper disegnare tazzine per caffè o una macchina per dar da mangiare alle mucche o arredi modulari».

Qual è stato il progetto più ostico?

«Se dicessi che è tutti sono uguali? Ci sono differenze di complessità ma la differenza principe la fa il tempo. Se per la macchina per passatelli ci metto un mese con l’elicottero impiego un anno e mezzo perché bisogna risolvere più problemi».

Capire l’oggetto lavorando con i tecnici. E loro come vedono il designer?

«Ecco, c’è una cosa, fondamentale, che cerco di stoppare immediatamente. A volte ci sono persone che dicono: cosa c’è da inventare? Io rispondo: lei faccia il suo lavoro che io faccio il mio e quando consegno il prodotto finito a volte sgranano gli occhi. Invadimi nel momento in cui sbaglio una cosa. Questo puoi dirmi, ma non come inventare».

Senza sacrificare la tecnica..

«E’ una regola. Faccio un esempio: la Leica. Erano macchine meccaniche che se le guardavi e facevi i confronti con le Nikon disegnate da Giugiaro era finita. Però funzionano bene. Il prodotto è bello anche perché funziona bene». g.bed.

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