Proust, Degas e le donne, l'emiliano che sedusse Parigi

Rimini

FORLÌ. Uno hobbit (per la bassa statura e la scarsa avvenenza), empatico seduttore dal pennello leggero; disegnatore compulsivo e curioso; esperto conoscitore della sensibilità femminile; cupo viveur e povero provinciale che si arricchisce con il bel mondo a Parigi, allora capitale del mondo; abilissimo ritrattista mondano a lungo sottostimato; artista che sa applicarsi – e con successo – alle trasformazioni della tecnica pittorica e capace, pur attingendo al passato, di cogliere le suggestioni e gli stimoli della nascente modernità.
Ecco Giovanni Boldini da Ferrara (dove nacque nel 1842 e dove è sepolto, morì invece nella Ville Lumière nel 1931), uomo in grado in sole tre ore di fare un ritratto a pastello di Giuseppe Verdi talmente iconico da meritarsi un posto sulle banconote da mille lire; amico di Degas e assiduo frequentatore di Proust (che con Boldini condivide le accuse di taluni intellettuali engagé di eccesso di frivolezza e mondanità) il quale cita nella sua Recherche una “Leda col cigno” probabilmente attribuibile al ferrarese.
Con Boldini, Forlì e il San Domenico precipitano vertiginosamente nella Parigi dell’ultimo quarto dell’Ottocento e del primo Novecento: attraversando le sale dell’ex convento si sente quasi il fruscìo delle sete rosa, blu o di un luminoso nero, e ci si innamora di quelle donne bellissime, irrealmente longilinee, dalla vita stretta e i volti affusolati, con le mani lunghe e appuntite, l’incarnato perlaceo, talora ritratte in pose voluttuose e con sguardi d’erotica intesa. Così perfette e levigate che potrebbe essere Boldini l’inventore del ritocco con Photoshop: come fare dunque a non amarlo?
«Le signore e i signori alla moda – scriveva nel 1877 il critico Francesco Netti –, i borghesi ricchi ritrovavan se stessi in quelle opere. Vedevan le stesse stoffe che avevano addosso, i tappeti che avevano a casa, il lusso nel quale vivevano, e poi scarpe di raso, mani bianche, braccia nude, i piccoli piedi, teste graziose. Quelle figure dipinte stavano in ozio tali e quali come loro».
Ma limitare Boldini a questo – come Lo spettacolo della modernità dimostra – sarebbe sbagliato. Antonio Paolucci riconosce all’emiliano, nelle sue opere migliori, una «vertigine cromatica quasi da action painting». «Ha attinto ai Macchiaioli, agli Impressionisti, ma è riandato anche ai classici olandesi e spagnoli del Seicento, da Van Dyck fino a Goya» afferma invece Gianfranco Brunelli. E proprio con il fiammingo, con i suoi colori e con la sua complessa composizione, è l’inedito e più sagace accostamento che la mostra propone in chiusura. Non senza prima aver condotto il pubblico in quel milieu artistico e sociale in cui vissero e ottennero altalenante gloria Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi, Serafino De Tivoli o Vittorio Corcos, gli “italiani a Parigi” che lasciarono poi il testimone a un tale Amedeo Modigliani. Ma la Grande guerra stava arrivando, e il mondo era già cambiato.

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