Santagata cerca Requie a Savignano

Rimini

SAVIGNANO. Il teatro Moderno di Savignano inaugura il decimo cartellone consecutivo, diretto sempre da Cronopios con volontà ferma di qualità e voglia di teatro da parte del sindaco Elena Battistini. La quale sta per uscire di scena. Ecco dunque che la nuova stagione diviene cruciale, pensando soprattutto a chi ne porterà avanti l’eredità. Per cominciare stasera alle 21 Cronopios si affida a un capitano di lungo corso del teatro di ricerca. È Alfonso Santagata in scena con la compagnia Katzenmacher da lui fondata nel 1979 con Claudio Morganti e Tullio Ortolani. Compagnia che prese il nome dal titolo del debutto, scritto e diretto dal foggiano Santagata. Stasera lo spettacolo è Requie a l’anema soja, due atti unici di Eduardo De Filippo rivisitati dal capocomico. Sono “Il cilindro” e “I morti non fanno paura” per sei attori in scena.

Santagata, di formazione accademica (scuola del Piccolo di Milano) lavorò con Dario Fo e Carlo Cecchi prima di fondare Katzenmacher. È soddisfatto dice, di debuttare a Savignano: «Sono contento di tornare nella Romagna vicina a Santarcangelo, laddove partecipai a quasi una ventina di festival. Davvero anni di fermenti, idee, energie».

Torna con De Filippo, autore di cui ha già portato in scena “Quali fantasmi” e “Le voci di dentro”. Sente che le appartiene?

«È un amore, e questo Requie completa la trilogia da me scelta. Lo sento come ultimo erede del teatro napoletano ottocentesco, quello di Scarpetta e di Petito, di farse e canovacci di un mondo libero ma rigoroso. Trovo importante quell’humus respirato da Eduardo quanto quello degli autori elisabettiani in rapporto a Shakespeare».

Dunque questo suo Requie non è un copione, ma un canovaccio?

«Sì, scritto negli anni Venti, ripreso nel 1952 dallo stesso Eduardo, inquadrato come “I morti non fanno paura”. L’ho accomunato a un altro atto unico, “Il cilindro”, perché si adattano insieme. Il tema è la morte ma come pretesto per fare soldi, per sopravvivere. Una morte che fa sorridere».

Torniamo al passato di Santarcangelo: ricorda qualche aneddoto?

«A un Festival, forse negli anni Ottanta, dovevo allestire un lavoro sulla spiaggia di Rimini; era impegnativo, si dovevano creare percorsi alternativi, avevamo coinvolto anche tecnici per piantare pali di ferro. Insomma, due giorni di allestimento. Ebbene, un fulmineo temporale in mezz’ora distrusse tutto. Mentre io sconsolato seguivo il disastro dalla finestra del mio albergo».

E un ricordo a lieto fine?

«Ai Cappuccini di Santarcangelo nel ‘94 allestivamo “Terra sventrata” provando a notte fonda. Si fece avanti un gruppo di ragazzini che voleva provocare, con mazza in mano. “Datemi la mazza e mettetevi a sedere, se volete” ordinai. Rimasero seduti per tutte le prove e addirittura ci portarono pubblico e sostegno».

Cosa manca oggi alle nuove generazioni che vogliono dedicarsi al teatro?

«Ho l’impressione che debbano fare veloce, che non abbiano molto tempo da perdere. La ricerca non è una corsa a finire il lavoro, esiste una filosofia in cui, pur senza abusare, bisogna anche saper prendere tempo».

Qual è il suo rapporto fra testi classici già scritti e nuovi testi teatrali?

«Personalmente credo che per fare ricerca non occorra scrivere un nuovo “Otello”. Possiamo già fare migliaia di “Otello” con sguardo diverso. L’importante è il modo di porsi davanti a un testo. Bisogna farlo proprio quel mondo, portarlo a casa. Non devo ricreare il rapporto Iago-Otello, devo rafforzare l’autore, cosa che per me avviene con un incontro-scontro».

Info: 0541 943960

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