Requiem, la vena scura di Bellosi

Rimini

RUSSI. Il pubblico che lo conosce e da anni segue i suoi recital, abituato allo schietto sorriso, seppur velato di malinconiche riflessioni, scoprirà la vena più “scura” di Giuseppe Bellosi nel suo nuovo lavoro in scena questa sera alle ore 20.45 al teatro Comunale di Russi: “Requiem”. Una lettura scenica, o meglio un “concerto di poesia e musica” in cui lo studioso e poeta – accompagnato dalle musiche scelte e interpretate dal violoncellista Fabio Gaddoni – dopo aver interpretato le opere dei più importanti poeti romagnoli, dà voce alla propria poesia. In particolare a tre poemetti composti in un ampio arco di tempo: “E’ paradis” scritto nei primi anni Ottanta (pubblicato nel ’92 da MobyDick), “Bur”, uscito nel 2000 per Marsilio, e l’ultimo, “Requiem”, del 2007 ma pubblicato solo lo scorso anno in una preziosa edizione artistica per l’Opificio della Rosa di Montefiore Conca, con le xilografie di Umberto Giovannini. Tre distinti lavori riuniti in un unico “concerto”, perché intimamente legati da un nucleo tematico comune.

È lo stesso Bellosi a spiegarci come si tratti «di un percorso unico, una lunga meditazione sulla vita e sulla morte, che si dipana ai margini di una civiltà contadina che sta scomparendo, e quindi si nutre delle immagini e dei paesaggi della nostra terra, e della storia che l’ha attraversata, quella della monotona quotidianità che si ripete stagione dopo stagione e quella dei grandi eventi, come la guerra che si insinua nei ricordi…».

Ma chi è il protagonista, l’io narrante di questo percorso?

«Il carattere è quello di un diario sommesso, quasi una confessione, ma non si può parlare di un vero e proprio io narrante. È l’autore, forse, nei primi due quadri, “E’ paradis” e “Bur”, che riflette sulle esperienze dolorose, gli incontri, le persone conosciute e perdute, ma a prendere la parola nell’ultimo sono i morti, voci diverse che raccontano di sé e della propria condizione. Vivi e morti, reciproci ricordi che, senza nostalgia, congiungono il passato al presente prima che tutto svanisca nel nulla».

Un testo, naturalmente, nella lingua prediletta di Giuseppe Bellosi, il dialetto romagnolo, una lingua anch’essa oramai appartenente al passato, che ancora non è una lingua morta, ma che certo si appresta a diventarlo.

«È così, ma è pur vero che in ambito poetico e artistico ogni lingua è lecita. Quando scomparirà del tutto dall’uso, del dialetto rimarrà solo testimonianza scritta (del resto la tradizione scritta di questa lingua eminentemente orale è oramai pienamente consolidata), come è per il latino e per tante altre lingue scomparse nei secoli. Ma finché c’è qualcuno in grado di capirlo credo abbia senso continuare a portare in scena il dialetto, dargli voce e suono. In questo caso, un suono che gli viene anche dalla musicalità insita nei versi, rigorosamente costruiti su base endecasillabica».

Ma cosa si può esprimere in dialetto che l’italiano non sappia dire?

«In italiano si può esprimere tutto, basta saperlo usare…, e tanti grandi poeti ce lo dimostrano, però per chi, come me, l’ha imparato a scuola, come lingua “artificiale”, il dialetto è più naturale, riesce a restituire sensazioni in altro modo inesprimibili. Eppoi c’è il suono del dialetto, ci sono parole che io sento legate a certi luoghi, persone, ricordi: è una lingua che potremmo definire più “impaesata”, parte ed espressione di una dimensione più intima».

Quella dimensione che ha nutrito, da Guerrini a Baldini, la lunga e prestigiosa tradizione di poesia in dialetto romagnolo.

«Sì, ma se c’è un modello, o meglio un punto di riferimento, per questo mio lavoro, quello è Eliot, il poeta che amo di più, e in particolare il suo “La terra desolata”».

A testimoniare l’universalità della poesia.

Info: 0544 587641 www.comune.russi.ra.it

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