Amore, guerra, modernità e magia in un corpo a corpo con la musica

Rimini

 

RIMINI. Fate, spiriti, cavalieri e principesse: il “Re Artù” di Henry Purcell (1659-1695) e John Dryden (1631-1700) ci immerge in un universo fantastico che riconduce all’infanzia, al sogno, al magico tenebroso. Una selva incantata in cui la partitura del più grande musicista della Restaurazione inglese si fonde con la drammaturgia del massimo poeta, del quale T.S. Eliot lodava «la capacità di rendere il piccolo nel grande, il prosaico nel poetico, il banale nel magnifico».

È una semi-opera in cui teatro musicale e parlato si alternano. Una prova di maturità per il gruppo riminese Motus, chiamato all’impresa del King Arthur dalla Sagra musicale malatestiana, e al duplice debutto il 16 e 17 settembre agli Agostiniani.

Arthur, re dei Bretoni, e Oswald, re dei Sassoni, aspirano alla mano di Emmeline, cieca figlia del duca di Cornovaglia. Oswald la rapisce, i due rivali si scontrano, Arthur disarma Oswald e sposa Emmeline, dal mare sorge la Britannia. Meno di novanta minuti per trasporre i cinque atti dell’epica medieval-barocca nel linguaggio contemporaneo di marca Motus: i quali, però, riescono nell’operazione puntando su loro stessi. Scelgono di mettere al centro della scena il video, e trasformano i protagonisti in stilosi modelli vestiti da Antonio Marras, evitando così il rischio di “medievalizzare” l’ambientazione. Che invece è terribile e fatata, proprio come si conviene a ogni storia di sangue e passione.

Nel mondo cupo e stregato di Artù e compagni – tra amore e politica, tra sentimento e dover di patria – le immagini registrate di moderni edifici in rovina, che evocano una guerra di cui si avverte in lontananza il rimbombo, e quelle live riprese sulla scena, rimbalzano e rimandano, raccontano e puntualizzano, a volte volutamente depistano o suggeriscono, come i Motus sanno fare bene.

Sullo sfondo, la porta che si apre come un punto di fuga raddoppia e cela l’azione, preludendo a una mise en abyme che arriverà: il teatro svela se stesso. Allo stesso modo la lingua straniante dell’albanese Glen Çaçi e quella quasi atona di Silvia Calderoni – gli attori – fanno da contrappunto alle melodie barocche della Sezione Aurea e alle voci dei cantanti Laura Catrani, Yuliya Poleshchuk (soprani) e di Carlo Vistoli (controtenore), che sono il vero punto di forza di King Arthur.

Ed è proprio nell’incontro con la musica che il progetto-opera dei Motus acquista ancor più potenza, scavalcando stilemi consueti e felici e precipitando il gruppo in un pericoloso ma inebriante vis-à-vis con le note che prelude – forse, chissà – a un nuovo sentimento, a un nuovo moto a luogo.

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