"Racconto la nostra storia, un Far West meraviglioso"

Rimini

RIMINI. Albergo Italia (Einaudi) è un giallo storico ambientato nella colonia italiana d’Eritrea alla fine dell’Ottocento. Protagonista, una “strana coppia” di investigatori, il capitano Piero Colaprico dei Reali Carabinieri e il suo assistente indigeno, lo zaptiè Ogbagabriel Ogbà. Alias: Sherlock Holmes e l’inseparabile spalla Watson, dove Sherlock è il buluk-basci Ogbà. «Berghèz, ovvio!», esclamerebbe lui.
È il libro che Carlo Lucarelli presenterà stasera a Castel Sismondo (ore 21.30) per MobyCult.
Il capitano Piero Colaprico, col suo sigaro e i dubbi sulle smanie coloniali dell’Italia, era già in L’ottava vibrazione, vasto affresco uscito nel 2008. Ma da dove viene il perspicace Ogbà, e perché Carlo Lucarelli è tornato nell’Eritrea all’indomani della sconfitta di Adua?
«Sono due romanzi legati tra loro» spiega l’autore.
«Dopo L’ottava vibrazione ero rimasto nell’ambiente, avevo ancora molti materiali e suggestioni, e Colaprico è tornato in un racconto, Ferengi. Tra i due romanzi il nostro rapporto con l’Oltremare è rimasto lo stesso: quello con un luogo che ci era familiare e, quasi rimosso, oggi torna con la gente “strana” che arriva sui barconi. Ma se sulle nostre coste approda Asmareth di Mendeferà, per esempio, non sappiamo dov’è Mendeferà, o se Asmareth è nome da uomo o da donna. Eppure abbiamo condiviso una storia durata settant’anni! Nel frattempo sono cambiate le prospettive anche per me, ho sposato un’eritrea, Yodit, capito e saputo di più. E poi c’era Ogbà, il nonno di Yodit, che era già un bel personaggio. L’occasione per scrivere Albergo Italia è stato il Bicentenario dei Carabinieri, con la richiesta a quattro scrittori di scrivere sull’Arma. Io avevo Colaprico, ho aggiunto Ogbà ed ecco questo giallo agile, divertente da scrivere anche per me. Con due personaggi che porterò avanti».

Al centro di Albergo Italia c’è lo scandalo della Banca Romana del 1863, tra collusioni politico-finanziarie e insabbiamenti, che sembra cosa d’oggi… una sorta di “archeologia del presente”?

«È così: in Italia non abbiamo fatto i conti con il passato, come altre nazioni, e questo fa sì che la storia della “Colonia primogenita” sia sempre attuale. È un tema che vorrei approfondire nel prossimo libro. Sto leggendo le memorie di Ferdinando Martini, governatore dell’Eritrea dal 1897 al 1907, che scrive come fin da subito abbia avuto il mandato di “tagliare, tagliare”… e sembra di sentire un ministro d’oggi. Senza contare le vicende degli imprenditori coloniali tartassati, la strategia della tensione… un’archeologia del presente più esotica, direi».

La presenza della Storia calata in un genere narrativo, tipica del giallo-denuncia italiano di cui lei, con la trilogia del Commissario De Luca, è stato iniziatore, caratterizza i libri oggi più venduti. Perché, secondo lei?

«Fino a una decina d’anni fa noi narratori italiani non avevamo affrontato il Far West meraviglioso che è la nostra storia. E questo vale non solo per l’epoca coloniale, ma per gli anni Settanta e Ottanta, per il terrorismo… per questo ci guardiamo attraverso e non la capiamo. Ci siamo arrivati tardi. In molti romanzi adesso mettiamo in scena i meccanismi su cui chi doveva informare ha informato troppo o troppo poco. Raccontiamo storie che cercano di creare un immaginario che servirà al lettore per capire. Per questo mi sembrano inutili le polemiche su Gomorra. Dopo Saviano, se arrestano il boss Aldo Gionta lo sai chi è, perché l’hai guardato negli occhi, non è più solo un nome».

Un’attenzione e uno stile che lei ha portato nell’informazione televisiva, fino all’inspiegabile chiusura di La tredicesima ora…

«Adesso continuo a collaborare con Rai Storia, e con Bottega Finzioni stiamo preparando un programma per SkyArte, Le muse inquietanti. Con La tredicesima ora, come con Blu notte, avevo cercato di fare “narrazione civile”. Diversa – sia detto senza polemica – da quella di altre trasmissioni che si occupano di cronaca. Il gusto del morboso è umano, e quando capita un incidente ti volti a guardare. Ma poi devi rientrare in carreggiata, e magari far controllare i freni una volta a casa. Dopo tanti programmi su Cogne, se la domanda fosse stata quante mamme uccidono i figli in un anno – in Italia sono 12 –, quante altre Cogne ci sono perciò, nessuno avrebbe saputo rispondere. Invece si dovrebbe raccontare anche il disagio che è l’altro volto del diventare madre, non fermarsi allo schizzo di sangue. Entrando magari in concorrenza con gli altri nel mostrarne sempre di più…».

 

 

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