Il corpo politico che siamo noi

Rimini

 

 

RIMINI. È difficile trovare un libro che parli dal di dentro della danza contemporanea, e non solo agli addetti ai lavori. Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento di Paola Bianchi, danzatrice, ricercatrice e coreografa indipendente, lo fa. I fuochi sono: io corpo, drammaturgia, interprete, spazio e luce, suono, parola scritta, parola in voce, doppio, dall’esterno, schermi, bambini, cibo, politica.

«Corpo politico nasce da una serie di incontri-intervista iniziati nel 2007 con Silvia Bottiroli, grazie allo stimolo di Paolo Ruffini, curatore della collana “Spaesamenti”» racconta Paola.

«In quei file audio alcune parole ricorrevano e si rincorrevano, e sono diventate l’ossatura del libro, i punti di riflessione intorno a cui ho lavorato aiutata da Silvia Parlagreco che insieme a Bottiroli ha curato il volume – pubblicato da Editoria & Spettacolo –. È stato per me un modo per fare il punto sul mio percorso, per chiarirmi alcuni nodi importanti e per mettere in discussione certezze pronte a essere smantellate».

 

 

Il suo lavoro è centrato intorno al corpo, come strumento espressivo e come area di indagine. Perché va detto “politicamente”?

 

«Il rapporto con il nostro corpo è oggi determinato da continui tentativi di dominio, di autocontrollo, di incessante medicalizzazione dettati dal potere. Il dualismo anima/corpo ha devastato il nostro rapporto con il corpo portandoci a parlare del corpo, a pensare al corpo anziché sentirci corpo. Riacquistare la connessione pensiero/corpo è, credo, un compito che dovremmo assumerci tutti».

 

Ma come?

 

«Tutto ciò che avviene intorno a noi lascia un segno in noi, su noi, cicatrici indelebili che plasmano il nostro modo di stare al mondo. L’alimentazione, l’invasione del lavoro nella sfera privata, l’uso e spesso l’abuso della tecnologia, per fare alcuni esempi, hanno modificato il corpo, l’io-corpo, le sue fattezze, la sua essenza. Prendere atto di questi cambiamenti è un passo importante e necessario. Le rivoluzioni si fanno con il corpo, non con la mente».

 

Per questo tra la sua opera di divulgazione della danza contemporanea e l’attenzione ai bambini si tende quasi una pedagogia?

 

«È così. Da bambini comunichiamo con il movimento prima che con la parola e il linguaggio della danza è immediato. Crescendo tendiamo a dimenticarlo, abbandoniamo il corpo per occuparcene dall’esterno, come se non fosse parte di noi ma ci appartenesse soltanto. La difficoltà nell’entrare in relazione con il linguaggio della danza contemporanea è causato anche da questo distacco».

 

Importante, nel suo percorso, anche il rapporto con la parola detta e scritta.

 

«Ora mi sto dedicando a un progetto di danza verbale, uno spettacolo di danza spogliato della visione, sua essenza primaria. La coreografia è descritta in voce nei minimi dettagli ma non è visibile; in questo modo lo spettatore o meglio l’uditore diventa co-creatore. Mi interessa indagare il rapporto tra la parola – scritta, detta, ascoltata – e la sua interiorizzazione che si fa movimento, reazione».

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