I versi essenziali di Annalisa Teodorani

Rimini

SANTARCANGELO. C’è una poesia che dice Mètsi e’ cór in pèsa/l’è cumè stè so dop una févra, «mettersi il cuore in pace è come alzarsi da una sfebbrata» al centro di La stasòun dagli amòuri biénchi (“La stagione delle more bianche”, Carta Canta) di Annalisa Teodorani. Una raccolta di versi in dialetto santarcangiolese curata da Davide Rondoni, che la presenterà con l’autrice a Santarcangelo, alla Biblioteca Baldini questa sera alle 21.

Un libro di cui arde anche la soglia, Par tott al pianzéudi, par tótt i fùgh, poesia dei fuochi che si estinguono da soli, consumata ogni cosa. Versi essenziali d’una giovane donna che «potrebbe apparire, per le sue scelte di campo, come un meteorite precipitato sul parterre della poesia italiana», ne ha scritto Manuel Cohen. Che confermano la voce autentica di Annalisa Teodorani, nutrita d’una lingua “madre” che fa pulsare nel contemporaneo. Con un cuore che «l’è un pulsòin/una févra/sòta una muntàgna ad piómmi» anche lui.

«Sono un po’ emozionata per la presentazione di oggi», racconta la poetessa. «Non sembra, ma esporre quello che si è scritto è quasi come spogliarsi in pubblico… lo so, sembro molto spavalda… e invece!».

Nelle sue precedenti raccolte, Par senza gnént, del 1999, La chèrta da zugh del 2004 e Sòta la guàza, del 2010, intorno all’icasticità dei versi c’era un apparato importante. La stasòun dagli amòuri biénchi è quasi senza intermediari critici…

«È vero» sorride la Teodorani, «Mi sono messa nelle mani dell’editore e di Davide Rondoni, che ha scritto una brevissima postfazione. Il bello per il lettore è che non ci sono condizionamenti, e senza il filtro della critica la scrittura arriva nuda, con una sua urgenza. Avevo dentro di me questa volontà di consegnare qualcosa… anche se consegna è una parola molto grossa, forse».

Un “tramandare”, allora. Trentotto poesie disposte con fine attenzione ai rimandi interni, in cui tornano i suoi temi e figure ma come rastremati, col filo rosso della febbre… che è un po’ la “févra lizìra” di Giuliana Rocchi?

 

«Credo che esista questo cordone che mi lega a lei, unica rappresentante della tradizione di poesia dialettale santarcangiolese, e traccia una linea del femminile. Ed è vero, c’è questa febbre d’amore che però investe molte cose, come un abbraccio. Una febbre che brucia i residui e lascia l’essenziale, la cenere o la polverina argentata delle falene. Da un libro all’altro si cambia, qualcosa permane e qualcosa si matura, c’è una presa di coscienza che si compie nel tempo e lascia traccia nella scrittura. È la poesia che ti porta».

Qui sembra quasi che stia cercando una sua strada anche in italiano…

«Le mie poesie sono sempre concepite in dialetto, c’è una sorta di imprescindibilità», riflette Annalisa Teodorani. «Ma adesso ho in testa qualcosa di diverso, che vuole uscire, ma non ho fretta. Scrivere in dialetto è restare in una culla dove ho avuto la possibilità di crescere, che mi ha educata a una chiarezza, a una schiettezza che voglio seguire e che in italiano sarà più difficile, le incrostazioni sono molto più forti. Ho avuto molto bisogno di essere riconosciuta, esser detta erede di Tonino Guerra è senz’altro una radice importante, ma un poeta deve diventare se stesso. E ora non ho paura di mettermi “per l’alto mare aperto”…».

 

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