Baccarini, Montevecchi e la "Bitta"

Rimini

La I Biennale del disegno di Rimini commemora Domenico Baccarini (Faenza 1882-1907) con l’esposizione alla Far di oltre quaranta disegni suoi provenienti dalle raccolte comunali faentine, curata da Annamaria Bernucci. A Villa Franceschi, la galleria d’arte moderna e contemporanea di Riccione diretta da Daniela Grossi, sono in mostra due quadri della collezione permanente dipinti da Amleto Montevecchi (Imola 1878 - Lugo di Romagna 1964). Luciano Santolini, nel volume “La Bitta e i suoi pittori”, (Casanova editore, Faenza, 2007) ci racconta come le vite private dei due artisti siano drammaticamente sconvolte all’inizio del secolo scorso, dall’incontro fatale con Elisabetta Santolini, la “Bitta”, una splendida popolana faentina. Domenico Baccarini la incontra a un ballo all’inizio del 1903 e da quel momento l’affascinante diciannovenne diventerà la sua compagna di vita e la musa ispiratrice delle sue opere migliori. Pochi anni dopo, nel 1906 a Imola, galeotto sempre un ballo, Bitta conosce Amleto Montevecchi del quale si innamora perdutamente tanto da abbandonare il compagno, già minato dalla tubercolosi, e la figlia avuta da lui, per andare a conviverci.

Il pittore imolese, dopo la frequenza all’Istituto d’arte e mestieri della sua città e la frequenza all’Accademia di Bologna dove ottiene l’abilitazione all’insegnamento del disegno nel 1899, è all’inizio della sua carriera e si trova anche lui, come Baccarini, in gravi ristrettezze economiche. L’incontro con la Bitta e la nascita del primo figlio lo porta a trasferirsi a Forlì e a lavorare per la fabbrica di ceramiche Minardi di Faenza. Dotato di un indiscusso talento, si dedica prevalentemente al ritratto con il quale riesce a ottenere con maggiore facilità un qualche ritorno economico.

Purtroppo la bella e sfortunata Bitta, alla sua quarta gravidanza, nell’autunno del 1909 muore a soli ventiquattro anni, nell’ospedale di Cervia dopo una vita brevissima e appassionata, trascorsa nella povertà più estrema. La perdita dell’amata e successivamente quella di un figlio, portano Montevecchi a maturare il suo stile e ad acquisire alcune delle tendenze simboliste in voga in Romagna in quel periodo.

Ritorna a Bologna dove riprende l’insegnamento inserendosi attivamente nell’ambiente artistico della città fino a fondare nel 1920 il Sindacato degli artisti e dedicandosi con grande passione alla pittura sacra che lo porterà a decorare numerosi edifici di culto della regione. Inizia anche una intensa attività espositiva ed entra a far parte di quella schiera di “artisti turisti” secondo la calzante definizione di Orlando Piraccini, frequentatori abituali della Riccione balneare. Fra questi vanno ricordati il ferrarese Filippo De Pisis, Enzo Morelli di Bagnacavallo ma milanese d’adozione, il vicentino Dino Menato, il forlivese Maceo Casadei e l’imolese Rezio Buscaroli.

All’inizio degli anni Trenta, Montevecchi esegue una serie di quadri ambientati sulla spiaggia della Perla Verde che esprimono la sua innata versatilità artistica unita a un ecclettismo pittorico che non tradisce mai la sua radice postimpressionistica. Alcuni anni prima, nel 1926, il bolognese Federico Franceschi e la moglie Clementina Zugno si trasferiscono definitivamente da Argelato a Riccione nella loro villa, acquistata nel 1919. Federico muore un anno dopo e Clementina, senza figli, morirà nel 1953 nominando il Comune di Riccione erede universale di tutti i suoi beni, compresi la villa e i due dipinti di Montevecchi oggi esposti nelle sue sale, che raffigurano, con molta probabilità, la padrona di casa. In uno di essi la gentildonna è ritratta in un raffinato abito bianco mentre indossa gioielli preziosi fra i quali una splendida collana di perle che trattiene fra le dita della mano destra. e nell’altro, del 1931, più seducente, dove indossa un elegante abito da sera rosso. (s.s.)

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