Barbara Balzerani, dalle Br alla scrittura

Rimini

 

RAVENNA. Una penna felicissima e uno stile di rara bellezza. Sono quelli di Barbara Balzerani, che il Caffè Letterario di via Diaz ospita questa sera alle 18.30 per presentare il suo nuovo romanzo “Lascia che il mare entri” (DeriveApprodi).

Balzerani, ex militante delle Brigate Rosse, al termine di una lunga latitanza viene arrestata e sconta 25 anni di carcere. Dopo il carcere inizia una nuova vita. Esordisce come scrittrice con Feltrinelli con “Compagna luna” nel 1998 e poi con DeriveApprodi ha pubblicato “Perché io, perché non tu” (2009) e “Cronaca di un’attesa” (2011), preceduti nel 2003 da “La sirena delle cinque”, per Jaca Book. È però lei stessa a raccontarci qualcosa in più di sé e del suo lavoro. Balzerani, questo suo primo romanzo arriva dopo quattro lavori autobiografici. Una nuova sfida o ha seguito l’ispirazione?

«In verità tutti i miei libri sono stati considerati romanzi, forse in virtù del fatto che i miei recensori più benevoli li hanno sempre valutati opere letterarie più che memorialistica. Ho sempre scritto solo di ciò che ho vissuto e pertanto le mie pagine seguono le mie esperienze in cui l’andirivieni con il passato è filtrato dalle percezioni del presente. Il mio primo testo, “Compagna luna”, racconta, nel momento del primo permesso dal carcere, lo spaesamento di trovarmi in un mondo tanto cambiato e l’estraneità dei linguaggi di chi mi stava intorno. Mi dividevano gli anni del carcere e la mia incapacità di adattamento a una realtà tanto diversa che mi si rivelava tutta di un colpo. È stata quella la prima tappa di un viaggio che è proseguito via via che si allentavano le costrizioni della mia vicenda giudiziaria e che non hanno fatto che confermare quella prima intuizione. L’ultimo libro è stato scritto in condizioni di libertà e credo sia questo a fare la differenza». In poco meno di cento pagine “Lascia che il mare entri” unisce tre generazioni e dà una visione del Novecento molto articolata. Questo grazie al fatto che dal titolo fino all’ultima frase ogni parola è come se contenesse un piccolo mondo.

«Io sono sempre stata una buona lettrice e amo molto la letteratura. Con la scrittura cerco di restituire parte del piacere che ne ho tratto, nella liberazione dall’ordinario che consente, nell’anticipazione visionaria che indica una via di fuga. Quando ho letto la prima lezione americana di Calvino sulla leggerezza, ho capito il perché delle mie preferenze letterarie e del mio detestare la ridondanza. Credo di essere una fedele praticante degli insegnamenti del maestro che io traduco in un’opera di scavo e asciugatura. La mia scrittura è quello che rimane da un lavoro di rigorosa limatura. Ma credo che ci sia un altro motivo più personale. Gli strumenti “chirurgici” che uso per formulare la singola frase e trovare la singola parola credo derivino anche dalla mia esperienza carceraria e dagli anni passati a fare e rifare i conti con le mie opportunità e scelte di vita».

Nella nota introduttiva alla seconda edizione di “Compagna luna” c’è un passaggio in cui dice «[…]Come pena accessoria per i vinti, la parola negata. Condanna non scritta a una galera impenetrabile […]». La sensazione è che tutta la sua scrittura parta da lì.

«Quel libro porta all’inizio una citazione dalla “Cassandra” di Christa Wolf: la profetessa sulle mura della sua città sconfitta declama il suo lascito di memoria ma si chiede: “… questo sarebbe da raccontare ma a chi? Qui nessuno, se non quelli che moriranno con me, parla la mia lingua”. Magnificamente il virgolettato rappresenta il destino dei vinti: in catene, ammazzati e ammutoliti. Il vincitore, oltre alla resa, pretende tutte le ragioni e fa della ricostruzione storica un’arma per l’esercizio del suo potere. Infatti la nostra vicenda è stata talmente trasfigurata e decontestualizzata che viene usata come deterrente per il presente. Come se l’ipotesi stessa del conflitto sociale abbia esaurito la sua legittimità una volta per sempre. La mia scrittura non può che partire da qui perché la storia dell’insorgenza degli anni ’60 e ’70 è il prodotto di violenza, illibertà e ingiustizie di antica memoria. Le responsabilità politiche di chi ha governato questo paese anche con le stragi e di chi se ne è fatto alleato, ne hanno costituito le ragioni. Io non intendo cercare giustificazioni per le mie scelte ma neanche darne a nessuno».

Lei crede che il suo passato influisca – positivamente o negativamente – sui giudizi sulla sua scrittura?

«Certo. Nella sostanza sono ignorata dalla critica letteraria e ai margini del mercato editoriale, quando non direttamente sanzionata per la mia presunzione di esistenza in vita, ossia con facoltà di parola. Ma non mi lamento, voglio solo scrivere per chi, come me, soffre la povertà dei valori oggi dominanti, che fanno del mercato di tutto e di tutti la misura del bene e del male. Di recente ho conosciuto una donna straordinaria che mi ha detto: “Ti ringrazio perché mi hai ricordato quella che sono”. Conservo le sue parole come il più prezioso premio letterario a cui poter aspirare».

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