Thriller in riviera per Stefano Tura

Rimini

 

LUGO. La riviera romagnola si fa habitat insospettabile per spietati assassini nei noir di Stefano Tura, che al Caffè letterario di Lugo, mercoledì alle ore 21 nella sala conferenze dell’hotel Ala d’oro, presenterà il suo ultimo romanzo: “Tu sei il prossimo” (Fazi Editore).

In questo nuovo lavoro, lo scrittore e giornalista bolognese, corrispondente della Rai da Londra, si diverte ancora una volta a trasfigurare uno dei luoghi di vacanze per antonomasia in un ambiente dark e pericoloso, dove non è raro leggere sul “Corriere di Romagna” storie di truculenti delitti e inspiegabili rapimenti. Proprio la scomparsa di Leah Martins, bimba inglese di cinque anni in vacanza coi genitori a Cesenatico, fa scattare il congegno della trama da batticuore di “Tu sei il prossimo”.

Per l’occasione, Tura rispolvera i personaggi dell’ispettore Alvaro Gerace e del giornalista Luca Rambaldi, a cui si affiancherà l’inglese Peter McBride, detective di Scotland Yard con un passato nel mondo violento delle gang giovanili di Manchester.

Tura, da dove viene l’idea per il romanzo?

«Mi sono ispirato al caso di Madeleine McCann, bambina inglese scomparsa nel 2007 e mai più ritrovata, mentre era in vacanza in Portogallo con i genitori. Ma questo non è che il punto di partenza. Io ho modificato l’episodio, ambientandolo a Cesenatico e dandogli vita autonoma, anche perché non mi pareva corretto speculare su un fatto di cronaca che rappresenta ancora un grosso dolore per la famiglia di Maddie».

Quando si pensa alla riviera romagnola, viene in mente un luogo ospitale e votato al divertimento: in una parola, “innocuo”. Perché ha scelto di ambientare proprio qui il suo romanzo?

«Ho voluto raccontare il contrasto tra una cittadina pacifica e divertente, il classico luogo per famiglie come Cesenatico, e un fatto inquietante che va a colpire proprio le famiglie, ovvero la scomparsa di una bambina. È questa, a mio avviso, una delle regole della narrativa di genere: ambientare eventi sconcertanti in posti assolutamente normali e tranquilli. Non è mia intenzione colpire Cesenatico, che è il posto dove vado in vacanza fin da bambino e che amo!»

Nel libro si tenta di montare un caso mediatico sul rapimento della bimba, pensando così di favorirne il ritrovamento. Al di là degli sviluppi della trama, lei pare giudicare negativamente questo tentativo. Una posizione insolita per chi di mestiere fa il giornalista…

«In Inghilterra il caso mediatico ci fu davvero per Maddie. Coinvolse forze dell’ordine e rappresentanti delle istituzioni, e ci furono prese di posizione da parte di personaggi dello spettacolo e della cultura. Tutto questo mi colpì. Nel libro ho voluto darne una lettura critica. Penso che sia importante il ruolo dei media, anche per la ricerca della verità, ma a volte questi meccanismi possono essere sfruttati per altri scopi. Nel romanzo c’è una linea sottile che delimita il giornalismo buono da quello cattivo. Il primo è l’inchiesta personale di Luca Rambaldi, cronista forlivese di provincia che cerca di aiutare la polizia e il suo amico Alvaro Gerace. Il secondo riguarda la campagna mediatica che proviene dall’Inghilterra, messa in atto per scopi personali».

Il libro è ambientato anche in Inghilterra e traccia uno spaccato del mondo della gang giovanili. Anche qui si è ispirato a situazioni reali?

«Il gangsterismo giovanile è un problema molto sentito in Gran Bretagna, perché rappresenta la più alta forma di criminalità organizzata del Paese. Nelle sole periferie di Londra ci sono centinaia di gang composte da giovani che vanno dai 10 ai 20 anni di età e che si affrontano per il controllo dello spaccio di droga. Scontri che provocano non meno di una trentina di morti l’anno. Io ho voluto inserire riferimenti a queste vicende, condendoli però con una storia creata dalla narrazione. Il mio protagonista inglese vuole riscattare una giovinezza da piccolo gangster facendo la cosa giusta, ma prima dovrà confrontarsi con il suo passato».

Alle indagini “ufficiali” dell’ispettore Alvaro Gerace si affiancano infatti quelle non autorizzate del collega britannico Peter McBride. Sulla base della sua esperienza di cronista, può spiegare quali sono le differenze tra l’approccio investigativo anglosassone e quello italiano?

«Per gli inglesi le prove fisiche sono molto importanti, anche perché dispongono del più grande database mondiale di Dna: pertanto, hanno un gran cura nell’esaminare le scene dei crimini. In Italia, invece, abbiamo visto vengono purtroppo spesso inquinate da forze dell’ordine che forse non sono molto attente a questi aspetti; così, diventa difficile avere prove certe nell’ambito dei processi. Un altro aspetto riguarda l’assoluta garanzia che viene data in Gran Bretagna alle persone indagate o sospettate: finché non c’è una sentenza, difficilmente vengono rivelate identità e circostanze, mentre da noi il primo nome che compare nella lista dei sospettati finisce sui giornali».

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